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Italiani nel Mondo

La maledizione dolce-amara della vita dell’emigrante- The bitter-sweet curse of an Emigrant’s life

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Tempo di lettura: 6 minuti
di emigrazione e di matrimoni

La maledizione dolce-amara della vita dell’emigrante

di Carmelina Micallef

Il trasferimento in un paese nuovo non riguarda solo trovare un posto dove vivere; si tratta di attraversare cambiamenti personali che possono essere difficili e scuotere chi siamo. Dal confrontarsi con culture diverse alla lotta contro le battaglie interiori, è un viaggio pieno di emozioni che ci colpiscono profondamente, noi così come le nostre famiglie. Qui voglio discutere  ciò che chiamo la ‘maledizione dolce-amara della vita dell’emigrante’. Si tratta di come questa esperienza possa essere difficile ma anche piena di speranza.

Trasferirsi in un paese nuovo porta con sé sfide psicologiche ed emotive. Gli emigranti spesso si sentono nostalgici, desiderando il conforto familiare della loro terra natale e sono, tranne eccezioni, ansiosi di adattarsi a un nuovo stile di vita. Queste pressioni possono mettere a dura prova i rapporti familiari, specialmente con coloro che sono rimasti indietro, i quali potrebbero trovare difficile comprendere le sfide affrtontate in un nuovo ambiente, semplicemente perché non hanno mai sperimentato tali difficoltà loro stessi.

Le famiglie degli emigranti spesso esercitano una pressione significativa sui loro figli affinché eccellano nell’apprendimento di una nuova lingua all’estero. Queste pressioni derivano dalle aspettative culturali e dal desiderio di successo economico, spingendo i genitori a far raggiungere rapidamente la padronanza della lingua ai loro figli. Purtroppo, anche se nelle migliori delle loro intenzioni, ciò mette i bambini sotto costante osservazione da parte dei genitori, che li confrontano con i loro coetanei e li incalzano con i compiti ‘extra’, senza rendersi conto che l’acquisizione della lingua coinvolge oltre allo sviluppo cognitivo, anche quello emotivo. Solo quando questi due aspetti si uniscono i discenti possono davvero  comprendere la loro identità nel nuovo ambiente, ed è qualcosa che non dovrebbe essere affrettato. Questa sfida non è limitata ai bambini; anche gli studenti più anziani e gli adulti affrontano problemi simili quando si trasferiscono all’estero perché non si rendono conto che non possono replicare  il loro stile di vita precedente nel nuovo ambiente. Adattarsi a una cultura nuova significa adattare gli stili di comunicazione, le norme sociali e perfino le abitudini alimentari. Questi cambiamenti richiedono tempo e spesso entrano in conflitto con la routine familiare lasciata alle spalle.

Purtroppo, nessuno ci ha mai educato al cambiamento come uno stato emotivo, sulla comprensione del disorientamento, del dolore, della lotta per la sopravvivenza e della lotta contro gli stereotipi che etichettano gli emigranti come ‘diversi’. In una società focalizzata sul successo, gli aspetti meno conosciuti dell’emigrazione raramente ricevono attenzione, alimentando la falsa percezione che la colpa sia degli emigranti stessi.

La frase ‘Si è sempre fatto così’, comunemente usata in Italia, riflette un atteggiamento che certe cose rimangono invariate nel tempo, compresa l’identità di ognuno. Tuttavia, questa credenza talvolta può ostacolare le generazioni più giovani dall’esplorare alternative di vita, sia a casa che all’estero, per paura dell’ignoto o per una riluttanza a correre rischi. Dalle mie esperienze personali e professionali, ho capito che sviluppare un’identità fluida è piuttosto una fonte di forza ineguagliabile che arricchisce e che ripaga dei propri sacrifici.

La quiete e l’imprevedibilità della pandemia hanno ulteriormente influenzato come ci percepiamo e hanno spinto molti a riconsiderare le loro idee tradizionali sul tempo e sul progresso. Non stupisce che questo aspetto ancora non sia stato preso abbastanza in considerazione data la confusione su più fronti della quotidianetà attuale!

Affrontare malattie e perdite è sempre stato difficile, soprattutto per coloro che restano nel loro paese d’origine, ma per gli emigranti, questa sfida è amplificata. Separati dalla distanza e non essere in grado di offrire supporto diretto ai propri cari può portare spesso a sentimenti di isolamento, impotenza e alienazione.

L’emigrazione è dunque complicata e, una volta iniziata in una famiglia, tende a persistere attraverso le generazioni, modificando la vita non solo degli emigranti stessi, ma anche dei loro discendenti. Figli e figlie, essendo cresciuti in questo ambiente, sono inevitabilmente plasmati dalle esperienze dei loro genitori e spesso si sentono costretti a continuare il ciclo di partenza e adattamento a nuovi contesti.

Per affrontare questo fenomeno, dobbiamo riconoscere l’importanza di offrire supporto e risorse alle nuove generazioni, assicurandoci che non si sentano abbandonate o lasciate a navigare le sfide dell’emigrazione da sole, anche perché nulla è dato per scontato quando si tratta di affrontare complessità del cambiamento.

In conclusione, lasciare tutto alle spalle non significa affatto perdere chi siamo!

Significa invece, renderci conto una volta e per tutte che non siamo solo degli ‘stranieri’ o delle statistiche su carta.

Emigrare vuol dire capire come le nostre esperienze uniche ci abbiano plasmato e rafforzato al punto da riprendere il controllo della nostra vita anche da soli, apprezzando le sfide affrontate in passato e godendo della felicità del presente.

The bitter-sweet curse of an Emigrant’s life

By Carmelina Micaleff

The move to a new country isn’t just about finding a new place to live; it’s about going through personal changes that can be tough and shake up who we are. From dealing with different cultures to facing inner struggles, it’s a journey filled with emotions that affect us and our families deeply. Here, I want to discuss what I call the ‘bitter-sweet curse of an emigrant’s life’. It’s about how this experience can be both challenging and filled with hope.

Moving to a new country brings with it psychological and emotional challenges. Emigrants often feel homesick, longing for familiar comforts of their homeland and the anxiety of adapting to a new way of life. These pressures can strain family relationships, especially with those left behind, who may find it hard to empathize the challenges faced in a new environment, simply because they have never experienced such hardships themselves.

Emigrant families often place significant pressure on their children to excel in learning a new language abroad. These pressures stem from cultural expectations and the desire for economic success, leading parents to push their children to achieve proficiency quickly. Unfortunately, this places children under constant scrutiny from their parents, who compare them to their peers without realizing that language acquisition involves both cognitive and emotional development. It’s only when these two aspects come together that learners can truly understand their identity in a new environment and that it is not something that can be rushed. This challenge is not limited to children; even older students and adults face similar struggles when they move abroad because they don’t realize that they cannot completely replicate their previous lifestyle in a new environment. Adapting to a new culture means adjusting communication styles, societal norms, and even dietary habits. These changes take time and often clash with the familiar routines left behind.

Regrettably, no one ever educates us about change as an emotional state, about understanding the disorientation, the pain, the struggle for survival, and the fight against stereotypes labelling emigrants as ‘different’. In a society focused on success, the lesser-known aspects of emigration rarely receive attention, leading to a false perception that the blame lies with the emigrants alone.

The phrase ‘Si è fatto sempre così’, (It has always been done this way) commonly used in Italy, reflects a mindset that certain things remain unchanged over time, including one’s identity. However, this belief may sometimes hinder younger generations from exploring alternative ways of life, both at home and abroad, due to fear of the unknown or a reluctance to take risks. Reflecting on my personal and professional experiences, I’ve come to understand that we are not alone in this and that by talking about it can be a relief to others going through the same struggles.

The stillness and unpredictability of the pandemic have further impacted how we see ourselves and have prompted many to rethink their traditional ideas about time and progress. Surprisingly, this aspect hasn’t been taken into account enough!

Coping with illness and loss has always been difficult, particularly for those who remain in their home country, but for emigrants, this challenge is amplified. Being separated by distance and unable to offer direct support to their loved ones can often lead to feelings of isolation and helplessness.

Emigration is complicated, and once it begins in a family, it tends to persist across generations, altering the lives of not just the emigrants themselves but also their descendants. Sons and daughters, having been raised in the emigration environment, are inevitably shaped by their parents’ experiences and often feel compelled to continue the cycle of leaving and adjusting to new surroundings. To tackle this phenomenon, we must acknowledge the significance of offering support and resources to the newer generations, ensuring they do not feel abandoned or left to navigate the challenges of emigration on their own.

In conclusion, leaving everything behind doesn’t mean losing who we are. Instead, it’s about realizing that we’re not outsiders or numbers on a chart as some like to define us.

Emigrating is about understanding how unique our experiences really are and how they have shaped us into the adaptable individuals we now are, appreciating the challenges of the past and enjoying the happiness of today.

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