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Diritti umani

La tutela delle vittime di sfruttamento sessuale

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Secondo la Commissione europea, le donne e le ragazze sfruttate sessualmente rappresentano ancora la maggioranza delle persone vittime di tratta transfrontaliera verso l’Europa, ma è in aumento anche la tratta di persone dell’Unione Europea che dall’Est vengono orientate verso Nord e Sud Europa nello sfruttamento sessuale indoor e nello sfruttamento lavorativo o nell’accattonaggio.

 di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus

Come molti osservatori hanno notato, dopo gli anni della pandemia da Covid-19, sono cambiate alcune caratteristiche della tratta per sfruttamento.  Secondo la Commissione europea, le donne e le ragazze sfruttate sessualmente rappresentano ancora la maggioranza delle persone vittime di tratta transfrontaliera verso l’Europa, ma è in aumento anche la tratta di persone dell’Unione Europea che dall’Est vengono orientate verso Nord e Sud Europa nello sfruttamento sessuale indoor e nello sfruttamento lavorativo o nell’accattonaggio.  Sempre meno rari anche i casi di tratta a scopo sessuale di persone transgender da Perù, Venezuela, Argentina attraverso la Spagna e, ottenuto un visto, in direzione di altri Paesi europei, tra i quali l’Italia.

Le persone transgender si incontrano in strada in Spagna e Italia, spesso con un carico di debiti aggravato dai trattamenti ormonali di cui non possono fare a meno. Persone discriminate in diversi contesti, in taluni casi senza più radici perché scacciate dalle loro stesse famiglie e private della possibilità di un’alternativa in quanto transessuali, con un nome all’anagrafe di un genere e un nome del genere opposto per i clienti.  Sebbene la parola “tratta” dia l’idea di spostamenti, non è necessario che la persona sia trasportata fisicamente da un luogo ad un altro affinché si riconosca il reato di tratta, inoltre sempre più frequente e diffusa è la tratta interna, ovvero entro i confini nazionali. Atti, mezzi e scopo sono i tre elementi che distinguono il reato. Anche per questo motivo la protezione delle potenziali vittime deve avvenire in una fase anticipata rispetto al tempo di accertamento del reato e può essere indipendente dal dovere delle autorità di indagare su trafficanti e sfruttatori.  Sono documentati casi di donne bulgare (talora appartenenti alle comunità rom, adescate da finti fidanzati per allontanarle dalle loro comunità) ingaggiate, anche online, nei bar sul Mar Nero per offrire “servizi di escort”.

La tratta di esseri umani può aver luogo pure se la vittima ha inizialmente acconsentito a fornire servizi o atti sessuali a pagamento. Un trafficante può prendere di mira una vittima dopo che ha fatto regolare domanda per un lavoro o è migrata per guadagnarsi da vivere. Sono i mezzi utilizzati per sfruttare la persona che determinano il reato e non il consenso iniziale o successivo della vittima. Talvolta le persone coinvolte risultano non vedere e non aver mai sperimentato nessun’altra modalità lavorativa, e nemmeno la immaginano.  Tra le cause della crescita e varietà di modalità della tratta, secondo il Report Trafficking in Persons (Dipartimento di Stato americano, Report Trafficking in Persons, 2023) c’è la profonda crisi economica e la violenza politica che si stanno ampliando sia come conseguenza del Covid-19 e sia a causa del conflitto russo-ucraino, associate ad un utilizzo delle nuove tecnologie veloce e di difficile controllo da parte dei trafficanti per reclutare le prede e organizzarne lo sfruttamento.

La tratta è un fenomeno globale, per sua natura sommerso, e per questo non esistono statistiche esatte sul numero delle persone coinvolte. In Europa i Paesi con il maggior numero di vittime registrate sono Francia, Paesi Bassi, Italia, Romania e Germania. Cittadine e cittadini dell’UE rappresentano il 53% di tutte le vittime registrate, a dimostrazione della diffusione massiccia della tratta entro i confini dell’Unione.  L’impatto della pandemia sulle vittime ha portato a numerose conseguenze: le donne sono state tra i gruppi più danneggiati dalla pandemia, insieme ai bambini e ai migranti, spesso sfruttati in luoghi privati; ciò evidenzia la crescente femminilizzazione della povertà.  Inoltre, la violenza contro le donne e la violenza domestica sono aumentate durante la pandemia, accrescendo la loro vulnerabilità alla tratta, poiché le restrizioni alla circolazione hanno peggiorato la situazione delle vittime recluse, rendendo più facile ai trafficanti coprire le proprie operazioni illegali e rendendo le vittime ancora più invisibili.  Purtroppo, contestualmente, la denuncia di situazioni di tratta da parte dei testimoni è diminuita (dati UNODC, 2021).  Per quanto riguarda la tratta dai Paesi dell’Est Europa il reclutamento delle vittime avviene con metodi sempre più diversificati, ad esempio in Romania, testimonianze raccolte hanno rilevato l’esistenza di “informatori” dei trafficanti che individuano in anticipo negli orfanotrofi le ragazze che stanno per lasciare le strutture al compimento dei 18 anni, e mettono in atto adescamenti su finte promesse d’amore e di un futuro felice in Italia. I finti lover boy, che sono affiancati ad ogni ragazza lungo tutto il periodo di sfruttamento, che può durare anni, ne controllano l’attività esercitando un controllo totale e violento.

Tutto ciò rende importante la tutela internazionale, della quale è esempio recente un caso dibattuto nello scorso gennaio da un Tribunale italiano che ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una cittadina nigeriana vittima di sfruttamento sessuale (trafficking), in quanto donna vulnerata, esposta al pericolo di persecuzioni ed al rischio di re-trafficking nel Paese di provenienza, ove sarebbe priva di una rete familiare protettiva e, comunque, percepita come diversa e emarginata, senza possibilità concrete di tutela statuale.  Secondo il Tribunale va riconosciuto lo status di rifugiato alla cittadina straniera in questione  in quanto donna vittima di tratta, ciò qualora siano emersi plurimi indici significativi di trafficking, quali ad esempio, la condizione d’isolamento familiare nel Paese di provenienza, la conseguente vulnerabilità, il totale affidamento ad un “intermediario” nella speranza di una vita migliore, il giuramento e la promessa del pagamento di una somma di denaro, il trasferimento in Libia, la costrizione in un “connection house” e le violenze ivi subite, l’arrivo e la prostituzione anche in Italia, l’adesione alle procedure di referral.  Nello specifico la donna viveva in isolamento familiare, con lo stigma sociale della persona costretta a prostituirsi e le difficoltà di trovare un’occupazione lavorativa, fattori che, in concorso tra loro, avrebbero esposto la persona al pericolo di essere nuovamente vittima di traffico, specialmente in Nigeria, Paese connotato da una forte discriminazione nei confronti delle donne (come ricavabile da report e dati internazionali). Proprio l’assenza di un sistema effettivo di protezione impone al riconoscimento dello status rifugiato ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. e), f), d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (Tribunale Ordinario di Brescia, sezione settima civile, decreto n.845.2024 del 19.01.2024).

Procedura analoga varrebbe nei casi di stigma sociale, persecuzione e marginalità causate da diverso orientamento di genere, considerato che forme di omosessualità e di sessualità atipica sono in molti Paesi fortemente sanzionate anche formalmente, oltre che dalle culture locali.  Le norme però non sempre sono al passo con le trasformazioni in corso, esempio positivo di adeguamento al mutato contesto tecnologico e sociale è invece la Direttiva Europea 2011/92/UE, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori che, oltre ad inasprire il trattamento sanzionatorio di alcuni reati, introduce il “Reato di adescamento di minore”, anche attraverso l’utilizzo della rete Internet (c.d. “grooming” on line).

La tutela delle persone che subiscono sfruttamento sessuale, o ne sono a rischio, trova certa attenzione nella Corte di Cassazione che si è espressa nel corso degli ultimi anni con riferimento alle forme di protezione ed ai relativi titoli di soggiorno da riconoscere alle giovani donne straniere destinate al mercato della prostituzione in Italia, indicando nella tutela la principale priorità.   Così, quando alcuni anni or sono, in occasione di una istanza avversa un ricorso rigettato dal Tribunale di Bari che aveva respinto il ricorso ritenendo che, non potendo la ricorrente essere riconosciuta vittima di tratta, poiché non erano ravvisabili gli indicatori elaborati nelle Linee Guida sviluppate da UNHCR sull’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale, non vi fossero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione internazionale. Il Tribunale aveva dunque valutato che non vi fosse alcuna effettiva lesione dei diritti fondamentali da cui potesse risultare comprovata una specifica situazione di vulnerabilità soggettiva tale da far sussistente il diritto alla protezione umanitaria.

La Corte di Cassazione nel respingere la motivazione del Tribunale ha poggiato la propria decisione sulla valutazione di «assenza di capacità di autodeterminarsi», arrivando a concludere per la sussistenza, in casi come quello affrontato nel giudizio di merito, di una condizione di vulnerabilità fondata sulla «grave deprivazione dei diritti della persona afferenti la sfera della dignità personale e dell’autodeterminazione nelle scelte che incidono in modo primario nello sviluppo della personalità individuale».   La Corte di Cassazione si è richiamata ad una precedente pronuncia, la n. 1104/20, in cui già si era sottolineata l’ininfluenza dell’impossibilità di qualificare una persona vittima di tratta in senso stretto ai fini della valutazione della condizione di vulnerabilità per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La «necessità di prostituirsi» ha affermato la Corte «non può neanche astrattamente configurarsi come libera e volontaria», di conseguenza il Giudice ha il dovere di verificare la sussistenza della vulnerabilità.  La Corte di Cassazione conclude, pertanto, con l’affermazione del principio di diritto per cui «ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 comma 6 D.Lgs. 286/98, l’esercizio della prostituzione, se sorretto da necessità economiche, integra una condizione soggettiva di vulnerabilità anche ove non si possa attribuire alla richiedente la qualifica di vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale».   Ovvero, la Suprema Corte, pur chiarendo che in taluni casi è possibile la sola protezione umanitaria, ha ribadito il principio per il quale: «ove nella vicenda dedotta dal richiedente asilo sia ritenuto oggettivamente ravvisabile, sulla scorta degli indici individuati dalle Linee guida UNHCR, il forte ed attuale rischio, in caso di rimpatrio forzato, di esposizione allo sfruttamento sessuale o lavorativo nell’ambito del circuito della tratta di esseri umani, sì da ritenere sussistenti i presupposti per la segnalazione dei delitti ex art. 600 e 601 cod. pen. e per la segnalazione ai sensi dell’art. 32 comma 3 bis d.lgs.25/2008, ricorre una condizione di vulnerabilità personale valorizzabile ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria anche ove tale condizione non sia esplicitamente riconosciuta dall’istante».  Quindi, gli indicatori delle Linee guida sono certo importanti ma la ricognizione specifica della situazione individuale e il rischio che la persona possa subire la violazione di diritti fondamentali prevalgono sull’aspetto procedurale di eventuale mancato riscontro degli indicatori.

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