Tecnologia
I microchip nel cervello, tra neuroscienze e tecnologia
Già alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo il neuroscienziato Philip Kennedy, cofondatore di una compagnia di neuroprotesi (la Neural Signals), impiantò degli elettrodi nel cervello di alcuni pazienti.
di Antonio Virgili – vicePresidente Lidu onlus Odv
Il recente clamore mediatico suscitato dall’impianto nel cervello di un microchip da parte di Neuralink ha oscurato il fatto che tali esperimenti e ricerche si stanno oramai realizzando da almeno venti anni. Infatti, già alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo il neuroscienziato Philip Kennedy, cofondatore di una compagnia di neuroprotesi (la Neural Signals), impiantò degli elettrodi nel cervello di alcuni pazienti. Da altri clinici, nel 2004, fu impiantato ad una persona immobilizzata dopo un incidente, una vera interfaccia cervello-computer (brain-computer interface – BCI). Oramai sono già molte più di quante si pensi le persone che stanno sperimentando e utilizzando queste tecnologie, ciò anche per il contemporaneo invecchiamento demografico della popolazione e la conseguente crescita delle malattie neurodegenerative. Secondo l’OMS oggi nel mondo quasi un miliardo di persone manifesta patologie neurodegenerative lievi o gravi, quali l’Alzheimer ed il Parkinson, e la ricerca biologico-farmaceutica stenta a individuare le cause, i meccanismi e delle terapie efficaci per tali malattie. Esistono due diversi ordini di problemi in questo settore: il primo è la ancora limitata conoscenza delle caratteristiche della fisiologia del cervello, nonostante i grandi progressi delle neuroscienze, mancano vari tasselli per una migliore comprensione dei meccanismi cerebrali; il secondo è dato dall’evoluzione tecnologica delle interfacce tra cervello ed elaboratori, o intelligenza artificiale, interfacce man mano più efficienti e meno invasive.
Circa il primo ordine di difficoltà, il cervello è certamente l’organo del corpo umano più complesso, basti ricordare che comprende un elevatissimo numero di neuroni che comunicano unidirezionalmente tra loro tramite sinapsi, dove il terminale assonico di una cellula contatta i dendriti di un’altra in una direzione specifica. Questi neuroni comunicano anche con cellule non neuronali come astrociti, microglia e oligodendrociti, inoltre le funzioni del cervello vengono mantenute trasmettendo segnali elettrici o chimici tra i neuroni attraverso le sinapsi e, se questo non viene fatto correttamente, può diventare una malattia neurodegenerativa. Pure la barriera emato-encefalica (BEE) pone rilevanti problemi, infatti, non solo strutturalmente il cervello comprende strati multipli orientati in cui interagiscono numerose cellule neuronali, gliali e immunologiche ma essi sono funzionalmente protetti dalla BEE dalle sostanze tossiche. Al momento, la ricostruzione dell’intera struttura e funzione del cervello in un sistema ingegnerizzato di simulazione non è ancora realizzabile, a causa delle tecniche limitate, pertanto, studi recenti si sono concentrati sulla simulazione di parti specifiche del tessuto cerebrale, come la rete neurale unidirezionale, ovvero settorializzando gli studi e gli interventi. Ad esempio, studiando le caratteristiche dell’assone stesso, sperimentando farmaci solo nella regione assonale, oppure studiando la rigenerazione dell’assone dopo assotomia (cioè la lesione di un terminale), quindi piccole parti limitate, in attesa di tecnologie più potenti.
La BEE è una unità anatomico-funzionale unica, che appare solo nel cervello, con un bordo semipermeabile altamente efficace e selettivo. Non solo regola il trasporto di nutrienti e rifiuti, ma previene anche l’afflusso di agenti patogeni, sostanze neurotossiche e grandi molecole idrofile. Questa capacità di trasporto selettivo consente al cervello di mantenere la normale funzione, tuttavia, anche molti farmaci sviluppati per il trattamento delle malattie di solito non possono entrare nel tessuto cerebrale attraverso la BEE, fallendo nelle fasi di screening farmacologico e ostacolando la loro commercializzazione. Così, l’efficacia delle terapie attuali è ancora limitata e le sperimentazioni su animali producono spesso risultati inferiori quando attuate sulle persone.
La complessità del funzionamento del cervello determina difficoltà anche nel comprendere come e dove intervenire. Tralasciando alcuni aspetti più tecnici, sono stati recentemente sviluppati i modelli Brain-on-a-chip (BoC) nel tentativo di affrontare molte delle limitazioni riscontrate in altri modelli. I BoC sono stati utilizzati con cellule umane e sistemi dinamici per creare modelli microfisiologici che esibiscono funzioni specifiche e regioni uniche del tessuto cerebrale. I recenti sviluppi nei BoC possono essere suddivisi in tre categorie, a seconda delle loro capacità di screening ad alto rendimento o ad alto contenuto: (1) sistemi 3D ad alto contenuto, che imitano l’ambiente del tessuto cerebrale 3D in termini di materiali, tipi di cellule e stimolazione fisiologica; (2) sistemi multichip interconnessi, che simulano le interazioni cellula-cellula e organo-organo; e (3) sistemi ad alto rendimento, che possono selezionare in modo massiccio varie condizioni sperimentali rendendole compatibili con i sistemi di analisi convenzionali basati. Sebbene siano stati sviluppati molti modelli BoC, è tuttora necessario considerare numerosi fattori aggiuntivi per riuscire a imitare con precisione la complessa struttura e la fisiologia del tessuto cerebrale, quali le fonti cellulari, le interazioni cellula-cellula e, non ultimo, le interazioni tra cellula e matrice extracellulare (ECM). Per portare un esempio della complessità, gli astrociti – che hanno varie funzioni nel cervello, come il riciclaggio del glutammato, la modulazione dell’infiammazione e la circolazione del liquido cerebrospinale – sono solitamente in uno stato inattivato. Quando esposti a danni fisici, si attivano, formando una cicatrice gliale per proteggere il cervello intatto. Tuttavia, anche se gli astrociti non sono esposti a danni fisici, specialmente quando coltivati in vitro, essi possono entrare in uno stato attivato. Una tale attivazione involontaria degli astrociti non è però positiva per intervenire nel tessuto cerebrale sano, quindi, nonostante i progressi nello sviluppo della BoC, le difficoltà da superare nell’imitare con precisione la fisiologia del cervello sono ancora molte.
Quanto sopra accennato porta al secondo ordine di difficoltà. Un neurochip comprende un piccolo dispositivo basato sulle interfacce cervello-macchina che cercano di emulare il funzionamento delle sinapsi. Il suo impianto nel corpo umano consente l’interazione del cervello con un computer, sebbene la velocità di elaborazione dei dati del computer sia ancora inferiore a quella del cervello umano. Ci sono comunque molteplici modalità di stimolazione, non solo direttamente con impianti cerebrali. Milioni di persone oggi beneficiano della moderna neurotecnologia attraverso dispositivi come gli impianti cocleari, per la perdita dell’udito, la stimolazione cerebrale profonda (DBS), per i disturbi del movimento, o stimolatori del midollo spinale, per il dolore cronico. Sia nella comunità scientifica che nell’industria c’è desiderio di ampliare tali possibilità, migliorando l’efficacia, riducendo gli effetti collaterali, alla ricerca di nuove applicazioni per protesi visive, paralisi, epilessia, demenza, ecc..
Le interfacce cervello-computer (BCI) e le interfacce cervello-macchina (BMI) si riferiscono a neurotecnologie che osservano l’attività all’interno del cervello e la decodificano, o decifrano, per estrarre informazioni utili. Sebbene i termini BCI e BMI siano spesso usati in modo intercambiabile, esiste una tendenza all’interno della comunità a riferirsi a interfacce non invasive che utilizzano BCI e interfacce impiantabili che utilizzano BMI. Esistono numerosi metodi per osservare l’attività neurale, alcuni ben noti, tra cui l’elettroencefalografia (EEG), la magnetoencefalografia (MEG), l’elettrocorticografia (ECoG) denominata anche EEG intracranico, la registrazione intracorticale, la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso (fNIRS), tomografia a emissione di positroni (PET) e altri. Da tutti questi approcci è ampiamente condiviso che i metodi impiantabili (ad esempio ECoG, registrazione intracorticale) superano i metodi non invasivi (ad esempio EEG, fNIRS) a causa di una risoluzione spaziale e temporale e di un rapporto segnale-rumore (SNR) significativamente più elevati. Inoltre, sebbene sia possibile osservare l’attività utilizzando diverse modalità (elettrica, ottica, magnetica, ecc.), la registrazione elettrica è quella più consolidata e quindi più adatta a breve termine per i dispositivi clinici emergenti.
In particolare, per i BMI impiantabili, i recenti progressi nelle tecnologie dei circuiti integrati e dei microsistemi hanno consentito l’osservazione di molteplici canali di attività neurale utilizzando dispositivi elettronici di registrazione compatti e a bassa potenza. Ciò ha consentito alla comunità di sviluppare nuovi strumenti che consentano la scoperta scientifica ma anche sforzi traslazionali per applicare i BMI alle applicazioni cliniche. Ciò, ad esempio, può consentire la comunicazione per le persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o sindrome lock-in, o fornire un mezzo per il controllo di protesi esterne o esoscheletri per persone che sono paralizzate a causa di una lesione del midollo spinale (SCI). I più recenti progressi nei BMI impiantabili sono stati in due direzioni chiave: in primo luogo, l’ottimizzazione delle prestazioni per le tecnologie di interfaccia neurale esistenti; e lo sviluppo di nuove tecnologie di interfaccia neurale per consentire scalabilità e/o nuovi flussi di lavoro chirurgici.
Tra le sperimentazioni, i risultati del gruppo di ricerca di BrainGate forniscono un caso di studio unico che dimostra l’opportunità di ottimizzare e migliorare le prestazioni utilizzando una tecnologia di interfaccia neurale consolidata: l’array di elettrodi Utah (che consiste in una struttura di 100 microelettrodi a penetrazione). Collegando le conoscenze delle neuroscienze e diverse modalità per la codifica delle informazioni, sono state convalidate varie applicazioni sulle persone. Ciò ha portato a progressi significativi nelle prestazioni, tra cui la velocità di trasferimento delle informazioni, l’affidabilità nel tempo e le strategie di calibrazione. Le tendenze tecnologiche emergenti stanno realizzando strategie aggressive per aumentare il numero di elettrodi, attraverso architetture centralizzate e distribuite si stanno proponendo tecnologie in grado di osservare segnali provenienti da 100 o 1000 canali di registrazione. È tuttavia importante garantire che più canali di registrazione significhino un aumento del contenuto informativo sottostante, per cui la resa dell’elettrodo diventa quindi un fattore chiave. Le strategie includono il multiplexing degli elettrodi per selezionare solo i canali di registrazione con un buon SNR, interfacce flessibili per migliorare la biocompatibilità, nuovi flussi di lavoro chirurgici per fornire un posizionamento di precisione e nuove tecniche per interpretare grandi quantità di dati. La domanda di fondo rimane: quante di queste tecnologie riescono ad arrivare a una piena applicazione sulle persone? Gli stringenti requisiti per l’approvazione normativa includono la tracciabilità nel processo di progettazione, prove della sicurezza del dispositivo e del flusso di lavoro chirurgico, analisi dei rischi e dati sull’efficacia.
Ciò pone grandi richieste finanziarie agli sviluppatori, con il risultato, ad esempio, che pochissimi nuovi progetti di elettrodi per BMI ricevono l’approvazione per l’uso umano. Ciò non per possibili implicazioni etiche, trattandosi di strumentazioni atte alla riabilitazione o al ripristino di funzioni neurologiche compromesse o mancanti ma per limitazioni tecniche. Tuttavia, altre applicazioni hanno risvolti etici controversi, la novità di Neuralink è che l’azienda sta progettando un’interfaccia miniaturizzata e affidabile che sia realmente impiantabile nella testa del paziente, a lungo termine, Musk e collaboratori puntano a creare un’interfaccia cerebrale per tutti, non solo per i malati gravi, ma di largo consumo. Questa idea è l’aspetto più innovativo e controverso dell’intero progetto Neuralink. Progetto che comunque deve ancora risolvere vari problemi quali la longevità e l’affidabilità dell’impianto, in quanto gli elettrodi tendono a provocare la gliosi, cioè danni ai tessuti provocati dalla proliferazione degli astrociti. Da notare che anche la ricerca italiana è ben presente in questo settore, con centri di ricerca aderenti all’ Human Brain Project europeo, con l’Istituto Italiano di Tecnologia e con centri di terapia clinica per persone con limitazioni motorie e malattie neuromuscolari degenerative, quali la rete dei Centri Clinici NeMo. Infine, è utile tenere separate l’evoluzione dei microchip cerebrali rispetto a quelli sottocutanei, di minore impatto e già utilizzati in vari ambiti, che possono contenere informazioni personali, dati identificativi, dati anamnestici e sanitari, cure mediche, allergie, informazioni di contatto, o collegabili a data base esterni. Sono anche chiamati impianti RFID, cioè a identificazione con radio frequenza, e sono ad esempio usati per i microchip sottocutanei di identificazione veterinaria e degli animali domestici. La ricaduta sociale e giuridica di questo tipo di impianto di identificazione e localizzazione individuale, quindi non terapeutico, ove dovesse essere diffusa e liberalizzata, potrebbe risultare estremamente rischiosa e fortemente critica per la tutela dei diritti umani divenendo ulteriore strumento di controllo e tracciabilità.