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Diritti umani

Neuro-tecnologie e neurodiritti:  aspetti etico-giuridici

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Occorrono nuove fattispecie giuridiche determinate dallo sviluppo delle tecnologie e dell’intreccio cervello-macchina ed intelligenza artificiale.

di Antonio Virgili pres. comm. Cultura Lidu onlus 

Gli aggiornamenti tecnologici stanno aprendo nuove potenzialità ed opportunità che ampliano gli studi in corso sia sul funzionamento cerebrale che sulle modalità di interfaccia cervello-macchina anche ai fini diagnostici e terapeutici.   In particolare, le neuroimmagini funzionali ad ultrasuoni (fUS) offrono dettagli molto superiori alla già utilizzata risonanza magnetica funzionale (fMRI).

Tecniche sempre meno invasive consentono ora di poter individuare dettagliatamente i correlati cerebro-neuronali della pianificazione dei movimenti che una persona intende realizzare. Anche grazie a ciò, di recente, alla Johns Hopkins University hanno messo a punto una tecnica che ha permesso ad una persona parzialmente paralizzata di nutrirsi usando bracci meccanici guidati da una interfaccia costituita da micro-elettrodi collegati al cervello. In vari centri di ricerca europei e statunitensi si sta lavorando a progetti che utilizzano gli ultrasuoni per catturare i segnali cerebrali legati al pensiero quando si pianifica un movimento fisico.

I continui progressi nelle interfacce cervello-macchina consentono sempre di più l’adattamento, senza soluzione di continuità, di esoscheletri, protesi ed altre realizzazioni robotiche alle esigenze dei singoli utenti. Date le nuove tecnologie ed una migliore comprensione di come decodificare l’attività cerebrale momentanea delle persone, i tempi stanno infatti maturando per una integrazione in soluzioni centrate sempre più sul singolo cervello.   Tuttavia ancora va perfezionato un modello funzionale per meglio connettere la robotica e favorirne l’utilizzo nelle neuroscienze, servono anche robot più vicini alla struttura e al comportamento umani, ovvero robot in grado di imitare maggiormente le caratteristiche umane (anche fisiche) così da generare feedback più simili a quelli naturali e migliorare la loro integrazione con le reti neurali.

Sebbene l’utilizzo di dispositivi robotici in riabilitazione sia relativamente recente e ancora confinato a poche strutture di eccellenza, sta rivoluzionando la logica delle strategie di training, offrendo promettenti opportunità.    I risultati delle ricerche nel campo delle neuroscienze e della plasticità neuronale, dopo una lesione cerebrale, evidenziano la necessità di combinare strategie riabilitative intense e ripetitive con il raggiungimento di specifici obiettivi funzionali. I robot sono particolarmente adatti a soddisfare queste esigenze perché erogano esperienze di addestramento motorio intense, ripetibili, personalizzabili, motivanti e interattive, mediante feedback in tempo reale.  Le interfaccia cervello-macchina e l’uso dell’intelligenza artificiale stanno però anche creando nuove situazioni di vulnerabilità, intesa come condizione che caratterizza tutte le persone ed è riferibile non solo gli individui appartenenti a gruppi tipicamente connotati da requisiti di fragilità (minori, anziani, disabili) o ritenuti bisognosi di una maggior tutela da parte dell’ordinamento giuridico quanto, piuttosto, alle persone in generale in relazione al contesto in cui operano o si trovano. Nello specifico, occorre riferirsi alle nuove fattispecie giuridiche determinate dallo sviluppo delle tecnologie e dell’intreccio cervello-macchina ed intelligenza artificiale.  Tali connessioni potrebbero introdurre una nuova categoria di vulnerabilità, che comprenda i riflessi negativi sulla capacità di autodeterminazione degli individui in varie situazioni connotate dall’utilizzo di uno strumento tecnologico che riceve segnali cerebrali, li intrepreta e determina azioni.

Può essere utile distinguere due diversi scenari relativi alla vulnerabilità in relazione al mondo digitale: in un primo caso, essa riguarda le asimmetrie informative ed i condizionamenti, anche indiretti, delle scelte di tutti i soggetti che operano nella rete internet o attraverso banche dati. Nel secondo caso, invece, potrebbe verificarsi una maggiore vulnerabilità nella misura in cui all’originaria condizione di fragilità determinata da un particolare stato fisico o mentale (es. una malattia) si aggiunga una ulteriore condizione di debolezza dovuta all’interazione del singolo con strumenti tecnologici in diretta connessione con il suo cervello.  In questa seconda ipotesi, va valutato l’impatto che sul singolo può determinare l’impiego di applicazioni che sono state sviluppate per creare nuovi strumenti di inclusione per persone con menomazioni fisiche o psichiche e, in quanto tali, impossibilitati ad interagire con altri consociati o ad esplicare la loro capacità negoziale.

Il più delicato ambito della vulnerabilità tecnologica è proprio quello delle neuro-tecnologie e del rapporto con il cervello umano.   I dispositivi che consentono di controllare un computer usando segnali cerebrali generati dal cervello, da segnali muscolari o dal movimento oculare, sono oramai relativamente diffusi. Si tratta delle c.d. “interfacce uomo-macchina” che consentono a persone con forte disabilità motoria di controllare strumenti come una sedia a rotelle motorizzata o una tastiera virtuale con i soli occhi. Le “interfacce cervello-macchina”, invece, si caratterizzano per il rilevamento unicamente di segnali celebrali e possono a loro volta distinguersi in dispositivi che consentono di instaurare, tramite la tecnica di “Brain Computer Interface(BCI), un canale di comunicazione diretto tra cervello e dispositivi esterni (volti solo a ricevere segnali) e  dispositivi che consentono anche di inviare impulsi al cervello con le tecniche di “Deep Brain stimulation(DBS) che modulano, attraverso elettrodi, parte dell’attività neuronale.

La tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS) è stata approvata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1997, dalla Food and Drug Administration, per il trattamento di numerose condizioni neurologiche associate alla malattia di Parkinson come i tremori incontrollabili e la distonia, l’epilessia, la sindrome di Tourette.    L’uso della Deep Brain Stimulation è stato attualmente allargato al trattamento dei disturbi psichiatrici persistenti nel tempo e che non rispondono più ad alcun tipo di dosaggio farmacologico o terapia di qualunque genere.      Il trattamento con la DBS consiste nell’impianto chirurgico di elettrodi in specifiche regioni cerebrali, coinvolte nel disturbo, con lo scopo di stimolarle elettricamente attenuando e migliorando i sintomi del paziente e modulandone alcune attività neurali.  Per limitare o evitare l’invasività, sono in corso sperimentazioni anche con tecniche di intervento senza impianto chirurgico.

Successivamente, l’uso della Deep Brain Stimulation è stato allargato al trattamento di altri disturbi, come alcune forme di depressione e di disturbo ossessivo-compulsivo gravi e che non mostrano alcun tipo di miglioramento nel tempo.

Di recente, un gruppo di ricercatori statunitensi del Defence Advanced Research Projects Agency (DARPA) in collaborazione con i ricercatori dell’Università di San Francisco e dell’ospedale di Boston, ha presentato un progetto di ricerca preliminare che si prefigge lo scopo di testare la Deep Brain Stimulation per identificare e registrare online gli schemi di attivazione cerebrale associati ai disturbi mentali ed eventualmente trattarli sulla base delle informazioni raccolte.

I ricercatori, inoltre, hanno avuto modo di accedere all’attività cerebrale non legata agli episodi epilettici ma comunque registrata dagli elettrodi e hanno rilevato nel dettaglio anche l’umore dei pazienti per un periodo di tre settimane.

La loro idea è stata quella di mettere in relazione tali informazioni creando uno specifico algoritmo in grado di decifrare i cambiamenti dell’umore utilizzando l’attività cerebrale delle aree associate.   L’intenzione alla base dello studio non è stata quella di identificare un particolare disturbo mentale e ridurne i sintomi ma di “mappare”, tramite la Deep Brain Stimulation, l’attività cerebrale dei soggetti associata con delle funzioni compromesse dal disturbo dell’umore come ad esempio la capacità di concentrazione: gli studiosi hanno utilizzato l’algoritmo da loro sviluppato per capire quando stimolare le aree cerebrali legate all’attenzione “alterata” nel momento in cui il soggetto si distraeva da un compito.

Si è trovato che trasmettere impulsi elettrici alle aree cerebrali coinvolte nei processi decisionali migliorasse significativamente la prestazione dei soggetti, si è anche registrata l’attività cerebrale mentre le persone cominciavano a distrarsi o a rallentare, mentre svolgevano un compito e di conseguenza si è intervenuto con una stimolazione.  Questo trattamento dei disturbi dell’umore solleva questioni etiche notevoli e complesse in quanto il passo successivo sarà la possibilità di “correggere”, al momento, le emozioni o le decisioni delle persone o di registrare ciò che l’individuo sta provando andando al di là di ciò che è osservabile tramite le espressioni del volto o il comportamento o riferibile dal soggetto.

Accanto a tali ricerche, e ciò costituisce un ulteriore elemento di rischio, cresce l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha utilmente potenziato i dispositivi neuro-tecnologici i quali, tramite l’uso di sofisticati algoritmi bidirezionali (detti closed loop) sono in grado non solo di raccogliere segnali ma anche di inviare impulsi verso specifiche aree celebrali, così da automatizzare il processo decisionale e da raccogliere i dati generati da queste tecnologie senza intervento umano. La rilevanza da un punto di vista giuridico delle neuro-tecnologie è quindi riferibile alla loro crescente capacità di leggere il cervello umano e di indirizzarlo o condizionarlo a seconda delle ipotesi formulate.  Ciò pone un duplice livello di rischio, il primo connesso alla tutela dell’identità e capacità di autodeterminazione degli individui; il secondo relativo alla tutela della riservatezza personale.

La possibilità di incidere sull’attività celebrale di una persona comporta il rischio di una alterazione incontrollata della sua identità, ciò in una duplice accezione: sia come possibilità di non riuscire ad identificare un soggetto in quanto tale, laddove non si riesca più a distinguere la sua autonoma attività celebrale rispetto a quella indotta da dispositivi esterni; sia come alterazione della sua capacità di autodeterminarsi in maniera libera, compiendo scelte e ponendo in essere atti rilevanti senza alcun condizionamento.

Sono molti i progetti europei avviati nell’ambito dello studio del funzionamento del cervello umano. Il più importante tra questi è il progetto “Human Brain Project” il cui scopo è quello di costruire una piattaforma tecnologica online, solo per le neuroscienze, la medicina, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT).   Le motivazioni alla base di queste ricerche mirano a far sì che i progressi tecnologici possano aiutare i pazienti affetti da disabilità a gestire meglio le proprie condizioni, realizzando miglioramenti nella qualità della vita, come nel caso della c.d. “tecnologia indossabile”. Tuttavia, al momento manca uno specifico riferimento normativo per la tutela dei particolari stati soggettivi connessi all’impiego di tali dispositivi tecnologici.        Occorre invece prendere in considerazione la specificità delle fattispecie determinate dall’impiego di strumenti neuro-tecnologici e pensare all’introduzione di regole e diritti nuovi, per la tutela della particolare condizione di vulnerabilità del paziente sottoposto a tecniche di BCI o DBS e, più in generale, alle interfacce cervello-macchina che incidono sull’attività celebrale, alterandola e modificandola. In particolare, non vi è certezza che l’art. 3 della Convenzione dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea che disciplina il diritto all’integrità psichica possa ricomprendere anche la tutela delle possibili alterazioni del processo celebrale determinato dalle neuro-tecnologie. Al riguardo, un primo approccio al tema suggerisce di operare una interpretazione evolutiva e tecnologicamente orientata non solo della norma innanzi citata, ma anche degli articoli 7 e 9 della Convenzione, nonché dell’art. 22 GDPR (General Data Protection Regulation) in relazione alla decisione algoritmica. Secondo una diversa ricostruzione della fattispecie, invece, non sarebbe sufficiente il richiamo alle norme già esistenti ma occorrerebbe introdurre una nuova categoria di diritti cui si dà il nome di neurodiritti.

È stata, infatti, avanzata la proposta di introdurre norme che tutelino diritti nuovi come la privacy mentale, intesa come il diritto ad evitare l’accesso non autorizzato alle informazioni personali inespresse, evitando il rischio di perdita di controllo dei dati da parte del paziente con conseguente rischio che gli stessi siano accidentalmente o illecitamente divulgati; il diritto alla continuità psicologica per evitare manipolazioni dell’attività celebrale che vadano ad incidere sull’identità personale dell’individuo; il diritto alla libertà cognitiva, ovvero alla possibilità di decidere autonomamente se sottoporsi o meno alle tecniche neuroscientifiche o di interromperne l’utilizzo. Altra proposta è quella di adottare una “Dichiarazione Universale su Neuroscienze e Diritti Umani” al fine di adottare principi giuridici e valori condivisi a livello internazionale.

Il presupposto di tali iniziative legislative è rappresentato da un nuovo e diverso concetto di privacy che si concentra sui dati neurali e sulle informazioni riguardanti i nostri processi e stati mentali che possono essere ottenute analizzandoli con le tecniche citate.  Specialmente le più avanzate tecniche di “brain reading” spingono verso un inserimento dei neurodiritti nei trattati internazionali e nelle legislazioni nazionali.   Chi e come potrà porre limiti alle decisioni di una intelligenza artificiale che interpreterà e correggerà le richieste di una persona, scegliendo autonomamente quelle che ritiene migliori?     Come ci si tutela dagli effetti di eventuali manomissioni (hackers), guasti o anomalie delle apparecchiature?     Secondo alcuni scienziati è ad esempio possibile introdurre delle leggerissime perturbazioni, che non vengono riconosciute come un errore dalla macchina ma, al contrario, vengono interpretate come un segnale corretto e, per tanto, processate dall’algoritmo di intelligenza artificiale della BCI. In tal modo, di fatto, è possibile hackerare una BCI facendo credere che il malato abbia dettato alla macchina cose diverse da quelle che ha pensato realmente.

Ѐ indubbia l’ambivalenza del rapporto tra nuove tecnologie e particolari situazioni di vulnerabilità già esistenti. Se la tecnologia può in tali ambiti determinare un miglioramento della qualità della vita, nella misura in cui è possibile restituire alle persone interessate un certo livello di autonomia intesa come autosufficienza nel comportamento e nelle azioni che sono necessarie ai bisogni fisici e relazionali, dall’altro la nozione di autonomia intesa come diritto ad autodeterminarsi liberamente da sé nel pensiero e nell’azione rischia di essere seriamente compromessa.  In relazione a tale situazione, è utile e necessario un dibattito intorno alla possibilità che si riconoscano nuovi diritti a tutela delle situazioni soggettive relative alle neuro-tecnologie, richiamando l’attenzione su fattispecie che l’evoluzione tecnologica ha determinato e che non possono non essere prese in considerazione da un punto di vista sia etico che giuridico.

Tuttavia, l’introduzione di specifiche norme volte a tutelare i c.d. neurodiritti potrebbe risultare intervento parziale se ciò non si accompagni ad un mutamento dell’approccio ai sistemi di regolamentazione delle nuove tecnologie. Limitarsi ad interventi ex post in funzione rimediale delle possibili lesioni che la tecnologia può determinare rispetto ai diritti fondamentali delle persone, non è sufficiente.

Come precisato dalla Corte Europea dei Diritti Umani, infatti, la vulnerabilità è una condizione che richiede una tutela calibrata sulle specificità del caso concreto in quanto l’eterogeneità delle situazioni coinvolte non consente di adottare un unico e conformato strumento di protezione. Ciò è particolarmente rilevante in relazione alle situazioni di vulnerabilità relative alle neuro-tecnologie che induce a ritenere che l’impatto che si determina sui diritti fondamentali delle persone debba essere valutato preventivamente rispetto alla produzione di dispositivi tecnologici. Ciò che manca, dunque, non è tanto una risposta sul piano legislativo quanto un intervento di regolamentazione e tutela nella fase precedente – e non successiva – rispetto all’immissione sul mercato di prodotti che, se non adeguatamente valutati anche da un punto di vista giuridico e non solo delle funzionalità tecniche, rischiano di incidere sulle categorie giuridiche fondamentali e sui diritti delle persone.

Ciò che deve essere favorito è uno sviluppo tecnologico human centered, volto a ridurre la disabilità ma allo stesso tempo orientato ad una prospettiva etico-giuridica grazie ad una valutazione delle implicazioni giuridiche che, intervenendo nella fase della progettazione dei dispositivi, possa valutare l’impatto della tecnologia prima che questa venga diffusa.  Il diritto all’autodeterminazione nel pensiero e nell’azione, non deve divenire un limite generico all’evoluzione scientifica e tecnologica, dovrebbe essere sotteso ad ogni forma di progresso e fungere da ancoraggio fermo per evitare che la disabilità divenga un mezzo per incidere sulle categorie giuridiche della volontà e della capacità dei soggetti.  L’esperienza storica ha mostrato quanto facilmente tecnologie o scoperte potenzialmente molto utili siano state usate e commercializzate in modo improprio a soli fini speculativi o di gestione del potere. I rischi sono inevitabili, ma è bene porre subito degli argini e dei limiti, ad esempio per evitare la commercializzazione speculativa di terapie e prassi manipolative fuori controllo.

Inoltre, negli ultimi dieci anni c’è pure stato un importante cambiamento nell’uso dei dati, in particolar modo i big datahanno acquisito sempre più importanza e sono diventati la base su cui fondare decisioni e strategie. In tutti gli ambiti, da quello industriale o finanziario, a quello medico e scientifico sono ormai sempre più numerose le realtà che prendono decisioni “data driven.     Ciò è il risultato dell’aumento del volume, della velocità e della varietà dei dati raccolti e prodotti in tutti i settori.  Le grandi quantità di dati prodotti in ambito medico e farmaceutico, uniti all’uso dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie stanno apportando ulteriori modifiche nei settori della ricerca, della prevenzione e della terapia. A fronte di indubbi vantaggi informativi, in campo terapeutico lasciare le decisioni a banche dati può determinare sia una deresponsabilizzazione degli operatori che ad ignorare differenze individuali, facendo prevalere uno standard statistico che potrebbe, oltretutto, essere gestito autonomamente dall’intelligenza artificiale.

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