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Diritti umani

Katya Maugeri e la realtà carceraria femminile nel libro “Tutte le cose che ho perso”

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Katya Maugeri libro Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre
Tempo di lettura: 7 minuti

La giornalista e autrice catanese Katya Maugeri con il libro inchiesta Tutte le cose che ho perso porta all’attenzione sociale e dei lettori la realtà carceraria femminile. Un argomento spesso marginale, per la percentuale esigua di delinquenza femminile. 

Raggi di sole che rimbalzano dal muro a una sbarra, cibo insapore, rumori meccanici insopportabili e imperituri. Ogni singola molecola del corpo è pervasa da queste sensazioni e per un attimo, seppur misero, ci si sente parte di una realtà: quella delle donne del carcere femminile di Rebibbia.

Donne “da domare” per il sistema maschio centrico, magari da far tornare alla condizione di moglie o madre persa con l’arresto, sono le protagoniste del libro d’inchiesta sociale Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre di Katya Maugeri (1982). La giornalista e scrittrice catanese da anni impegnata sullo stato di detenzione in Italia, dopo Liberaci dai nostri mali, torna con un nuovo libro d’inchiesta sull’infinitesima realtà carceraria femminile (solo il 4% delle persone recluse in Italia sono donne) ai margini del pensiero e dell’informazione.  

Un percorso introspettivo sulle storie di 7 donne, costruito mediante l’ascolto attivo dell’autrice, scevro di giudizi e commiserazione per guidare il lettore nei dedali della realtà carceraria di stampo patriarcale con assenza di laboratori, bidet ma con l’immancabile attività all’uncinetto.

Lungo il cammino di queste voci, per non perdere la via, Katya dissemina dati, articoli del Codice penale e proposte per rendere il carcere un luogo rieducativo a tutti gli effetti; e a essi, aggiunge anche le preziose informazioni nella prefazione del magistrato Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano, nella postfazione della sociologa Eleonora de Nardis e nel contributo di Sandro Libianchi presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane – Centro Studi Penitenziari.  

Katya Maugeri copertina libro Tutte le cose che ho perso

Copertina di “Tutte le cose che ho perso. Storie di donne dietro le sbarre” della giornalista Katya Maugeri

Ogni capitolo da sfogliare, porta il numero di cella di queste donne, abituate alla povertà e forgiate dalle difficoltà, vittime di violenza, maltrattamenti e abusi intrafamiliari, e abituate in contesti di prostituzione in strada e abuso di sostanze.  

Fenici anestetizzate in cerca della loro rinascita che, in carcere, trovano rifugio nella poesia, nel supporto psicologico, nell’amicizia, nella consapevolezza del proprio corpo, consce delle loro azioni e del loro destino, senza vittimismi. Coscienti, pure, di dover fare i conti con una seconda prigione: la società, con i suoi occhi diffidenti e i pregiudizi infarciti di quel “Chi gliel’ha fatto fare?”, “L’ha voluto lei” o “C’è sempre una scelta”. Pensieri che, spesso, non tengono conto di una domanda: Come si fa, quando la scelta è la norma nel contesto in cui nasci e vivi? 

Quesiti su quesiti che avanzano (senza mai giustificare i reati), compreso quello sul destino dei figli delle detenute. Una questione che l’autrice approfondisce, inserendo un focus sulla genitorialità, la detenzione dei figli con le madri e di quelli che vivono lontano dal loro abbraccio.

Una realtà, da non sottovalutare, al momento affrontata con il palliativo degli ICAM, strutture a misura di bambino e Case Famiglie Protette per donne agli arresti domiciliari e i loro bimbi, presenti solo a Roma e a Milano.  

La giornalista e autrice Katya Maugeri

Da quanti anni ti occupi dello stato di detenzione in Italia dal punto di vista sociale e giornalistico? 

«Da circa sei anni. Ho iniziato con la comunità di recupero per tossicodipendenti Il Delfino di Cosenza, con il corso di scrittura autobiografica e da lì ho capito che nelle loro vite c’era qualcosa di sospeso che meritava di essere raccontato». 

 

Come mai hai sentito il bisogno di avvicinarti a questa realtà? 

«Quella carceraria è una realtà in penombra: crediamo davvero di conoscerla, ci permettiamo addirittura di giudicarla, eppure non la conosciamo affatto. Dietro ogni detenuto, detenuta, ci sono storie che nessuno racconta perché la società impone che sia il reato a parlare per loro: ma così non è.

E dalla volontà di indagare in quella penombra, mi sono ritrovata ad ascoltare le loro storie e sentire la necessità di raccontarle, non per giustificarle, ma per andare oltre l’apparenza e tentare quantomeno di arrivare all’essenza di esperienze complicate e complesse.

La nostra umanità si ferma alle porte dell’istituto penitenziario, non sappiamo davvero cosa avvenga dentro le mura, quindi ho cercato di raccontarlo». 

 

Quanto tempo ha richiesto la realizzazione “Tutte le cose che ho perso”? 

«Tutte le cose che ho perso è stato un lavoro lungo più di un anno e mezzo, un viaggio introspettivo all’interno dell’universo femminile che mi ha totalmente coinvolto. Un periodo lungo e intenso, senza sosta. Immersa – con grande pathos – nelle loro vite, vite che si mescolavano e che prendevano forma giorno dopo giorno.

Non è stato un lavoro giornalistico finalizzato alla realizzazione di un libro: è stato un percorso intrapreso insieme con tantissima voglia di raccontare (da parte loro) e immensa necessità di ascoltare e conoscere». 

 

Perché hai deciso di “varcare la soglia delle vite” delle donne in carcere? 

«Perché delle donne in carcere non ne parla quasi nessuno: rappresentano appena il 4 per cento dell’intera popolazione carceraria e forse è per questo che se ne parla poco, emarginate fra gli emarginati. Dopo Liberaci dai nostri mali, era necessario raccontare quello spaccato di società che in tantissimi ignorano. Le donne dentro celle minuscole e private di dignità». 

 

Quante storie hai sentito in totale prima di scegliere le 7 celle e secondo quale criterio hai dato a spazio a una storia invece di un’altra? 

«Ne ho ascoltate tante ma quelle che ho scelto avevano tutte lo stesso denominatore comune, pur essendo con dei vissuti diversi e lontani tra loro: c’era tanta consapevolezza, nessun vittimismo, tantissima malinconia e voglia di urlare al mondo la loro esistenza. Pur ammettendo i loro errori, orrori, ma sentivano l’esigenza di raccontarsi, volevano essere ascoltate. Ed io ero lì, per loro e per me». 

Come sei arrivata a queste donne? 

«Grazie alla collaborazione con Sandro Libianchi, che è stato per tantissimi anni responsabile medico dell’Unità Operativa della Casa di Reclusione maschile e femminile di Rebibbia e presidente del Coordinamento nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.) – Centro Studi Penitenziari, il quale ha collaborato al libro con un bellissimo capitolo dedicato alla genitorialità in carcere». 

 

La storia o l’aneddoto che ti ha colpito di più? 

«Sono tutte storie che hanno lasciato il segno, ogni loro storia mi accompagnava per giorni, per settimane. Mi ha colpito senza dubbio il modo in cui si sono affidate, il pudore con il quale mi hanno consegnato le loro storie, i loro dolori, fallimenti e speranze.

Mi hanno affidato la parte più preziosa: le loro riflessioni ad alta voce, i loro errori e i punti dai quali vogliono ripartire. Mi ha colpito il coraggio con il quale riconoscevano la loro fragilità». 

 

Come definiresti la tua esperienza con le donne del carcere di Rebibbia? 

«È un’esperienza che mi ha insegnato tantissimo, una percentuale così piccola con tante cose da raccontare, è stata una esperienza disarmante emotivamente ma che ha certamente rafforzato l’amore per il mio lavoro. Ho scelto di raccontare le storie ai margini di una società e sono convinta che sia necessario farlo». 

 

Quali ferite portano nell’anima? 

«Sicuramente l’amarezza di aver ferito le persone a loro care, il dolore di aver danneggiato le loro “vittime”, portano cicatrici che nessuno potrà mai sanare, ma è inevitabile. Fuori, insieme alle loro vite, camminano in parallelo le vite delle vittime, di coloro che hanno danneggiato, ferito. Portano addosso tutto questo e ne sono consapevoli». 

 

In che modo sei riuscita a conquistare la loro fiducia? 

«Non giudicandole. Astenendomi dal giudizio. Le ascoltavo perché volevo raccontare le loro storie, desideravo far emergere ciò che non viene raccontato e loro lo hanno capito da subito». 


La prigione non è solo quella della cella, ma anche il ritorno a una società giudicante, anche dopo aver scontato la pena. Qual è il peggior errore da commettere verso delle ex carcerate che vogliono trovare il loro spazio nella società e vivere onestamente?  

«Continuare a giudicarle come delle detenute. C’è chi sconta la propria pena e durante la detenzione comprende che finalmente – fuori – potrà fare altro. Magari tutto ciò che prima le era proibito perché paradossalmente lontano dalle “regole” del quartiere, della famiglia.

Non sempre si è in grado in scegliere, come del resto non sempre le loro scelte sono dettate dal caso, ma dal desiderio di ottenere potere. Molte di loro, fuori, stanno cercando di ricostruire una vita che avevano lasciato sospesa». 

 

Gli istituti penitenziari per donne, cosa dovrebbero offrire per prima cosa che, al momento, manca?  

«Tanto supporto psicologico». 

 

Nel libro le detenute parlano del carrellino della felicità, contenete psicofarmaci e anestetici per la terapia giornaliera. Sono veramente una soluzione idonea, specie per donne che entrano già in carcere con dipendenze? 

«Per loro è una delle vie necessarie da intraprendere per non impazzire, per anestetizzare il dolore, per sospendere un’attesa morbosa. È la soluzione per non pensare ai loro errori. Non è una soluzione. Le dipendenze si curano fuori dalle sbarre». 

 

Viene citata “l’omosessualità femminile” la capacità di sostenersi nell’affrontare paure, ansie, angosce, speranze.  Quanto è salvifica nel percorso delle detenute? 

«Tantissimo. Le donne durante la detenzione vivono grandi passioni, fortificano rapporti che diventano salvezza nei momenti di forte solitudine. L’amore salva, nonostante tutto, anche nonostante le sbarre». 

Donne, ma anche bambini dietro le sbarre e non per loro volontà. Tu ci parli di Case famiglie e Icam, cosa bisognerebbe fare per il loro bene? 

«I bambini non possono assolutamente scontare gli errori delle madri, parlo di case famiglie e Icam e se ne dovrebbe parlare più spesso e trovare delle soluzioni concrete affinché i bambini possano vivere da bambini e non da reclusi (da innocenti)». 

 

Cosa aiuterebbe a ridurre la recidiva degli ex detenuti? 
«Sono convinta che siano necessarie attività all’interno degli istituti penitenziari: fornire al detenuto, alla detenuta, una sana alternativa alla vita che fuori conoscono già. Stimolare in loro passioni, hobby, approcciarli all’istruzione.

Non dimentichiamoci che molti di loro provengono da contesti sociali che non prevedono forme di istruzione, pertanto, fornire loro gli strumenti idonei per scegliere quale strada (fuori) intraprendere potrebbe davvero segnare la differenza». 

 

Sei rimasta in contatto con le donne delle celle e sai com’è adesso la loro vita fuori dal carcere? 

«Sì, alcune di loro sono ancora ai domiciliari e cercano di costruire qualcosa di solido tra le loro macerie». 

 

Cosa ti rimane di questa esperienza? 

«La voglia di raccontare storie che nessuno racconta. Mi rimangono addosso tutte le parole, le riflessioni, le confidenze che queste donne mi hanno donato e che non ho scritto». 

 

E cosa speri che il libro “Tutte le cose che ho perso” susciti ai lettori? 

«Il desiderio di andare oltre ogni forma di pregiudizio, spero che la lettura di questo libro possa allontanare gli animi dall’indifferenza e avvicinarli all’umanità». 

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