Diritti umani
Victim Blaming, o colpevolizzazione della vittima: colpisce fin troppe donne che finiscono per essere doppiamente vittime
Le Istituzioni, spesso, non riescono a cogliere gravi episodi di violenza vissuta da donne che, sfinite, decidono di denunciare queste terrificanti realtà e, così, accade che le povere vittime, oltre ad aver subito ogni genere di sofferenza, sono poi costrette a non ottenere alcuna giustizia
di Giordana Fauci
La Victim Blaming, ovvero la colpevolizzazione della vittima è una condizione che colpisce ben 3 donne su 10: donne che, oltre ad aver subito violenza, non vengono poi credute dopo aver deciso di rivolgersi alle Istituzioni per ottenere giustizia ma, prima ancora, protezione, per se stesse e i propri figli.
…Donne che sono, quindi, vittime per due volte!
…Donne che, oltre a subire il danno, subiscono poi finanche la beffa!
Una ingiustizia intollerabile perché parte dalle stesse Istituzioni, entrando nei Tribunali e nelle case di chi ha subito tante e tali violenze, siano esse di tipo sessuale, fisico, psicologico o, finanche, di tipo economico.
E, dunque, una violenza che, oltretutto, colpevolizza la vittima, costringendola sull’orlo di un abisso che non potrà non sfociare in profonda depressione.
Perché dopo aver trovato il coraggio di denunciare, le povere vittime rischiano di non essere credute, così subendo un’ulteriore violenza.
…Stavolta, però, con un’aggravante: perché questa ulteriore violenza proviene dalle stesse Istituzioni che, invero, sarebbero tenute a tutelarle.
Il Victim Blaming, quindi, consiste proprio nella colpevolizzazione della vittima e, anzi, implica una sua corresponsabilità rispetto a quel che le è accaduto.
Non a caso, si parla anche di vittimizzazione secondaria, perché le donne arrivano a subire vere e proprie campagne denigratorie, oltre a soffrire non poco per non essere credute.
Così accade che queste povere donne non sono credute dai Medici, dalle Forze dell’Ordine o, peggio ancora, dagli Avvocati e dai Giudici.
…Una situazione che provoca danni tremendi nella psiche delle vittime, che normalmente, vivono con un gran senso di colpa, in primis nei confronti del figli.
Il rischio è ovvio: la vittima può sprofondare in uno stato di depressione da cui non si riprenderà facilmente. Del resto, se le donne, troppo spesso, non denunciano è proprio perché temono di non essere credute.
Perché può accadere che le Istituzioni non riconoscono le violenze come tali, non avvertendo prontamente campanelli d’allarme che, anzi, sono spesso minimizzati, al punto che veri e propri episodi di violenza domestica sono scambiati per banale “conflittualità tra ex coniugi”.
O, ancor peggio, accade che mogli che denunciano mariti e partner violenti, chiedendo, al contempo, l’affido esclusivo dei figli e visite protette, vengono poi ritenute “madri non collaborative” o, finanche, “alienanti”, anche se, ad onore del vero, non fanno altro che proteggere se stesse e i figli.
E, in effetti, accade che in non pochi casi i figli di quelle povere donne vengono affidati ai servizi sociali, perché anche il genitore che ha subito violenza viene considerato “inadeguato” ed è, questa, una ingiustizia ancor più grave, perché arriva da Istituzioni che avrebbero dovuto tutelarle.
Questo accade perché se molti sono i professionisti capaci e valenti, vi è altresì da considerare che vi è ancora molta, troppa impreparazione.
Bisogna, pertanto, incrementare la formazione specifica di tutti gli operatori sul tema della violenza domestica: Forze dell’Ordine, Magistrati, Avvocati, Consulenti, Operatori dei Servizi Sociali necessariamente devono seguire corsi di formazione ed aggiornamento sugli indici di riconoscimento della violenza domestica e sulla normativa in materia, pur senza dimenticare di offrire sostegno psicologico e legale alle vittime.
Non bisogna d’altro canto sottovalutare altro: il Victim Blaming è spesso perpetrato anche dai media che creano un pregiudizio sociale nei confronti della vittima, al punto da arrivare a condizionare finanche il giudizio del Tribunale, oltre che dell’opinione pubblica, prima ancora che si svolga il processo.
…Frasi del tipo “se l’è cercata…. Voleva un risarcimento… Non avrebbe dovuto vestirsi così…” sono all’ordine del giorno!
Ed è, indubbiamente, questo il motivo per cui accade che la vittima, nel timore di poter perdere l’affidamento dei figli, si ritrova costretta a fare accordi con l’ex partner, per evitare che i figli siano affidati ai servizi sociali o, ancor peggio, finiscano all’interno di case–famiglia, accettando, di contro, un affido condiviso col risultato che è sotto gli occhi di tutti…
…Un affidamento condiviso con un genitore violento non sarà di certo un affidamento giusto, perché un bravo genitore non può essere violento.
Non a caso l’Italia è stata spesso condannata dalla Corte Europea per aver qualificato “non collaborative” madri e donne che, giustamente, si sono opposte agli incontri dei figli con l’ex-coniuge, proprio in quanto violento.
Perché è indubbio che, per la Corte Europea, l’interesse superiore del minore deve sempre prevalere sull’interesse del padre, finanche nella prosecuzione delle visite.
Ed è per questo che la Convenzione di Istanbul, con riferimento alla violenza domestica, ha stabilito all’articolo 31 che “gli Stati devono adottare tutte le iniziative atte a garantire i figli, nel momento in cui sono determinati i diritti di custodia e di visita degli stessi, soprattutto prendendo in seria considerazione gli episodi di violenza domestica e, in tali casi, deve essere vietato il ricorso obbligatorio alla mediazione…”.
Ben diverso, invece, quel che accade spesso in Italia. Perché quando nel nostro Paese una donna si oppone alla mediazione è giudicata “non collaborativa”, senza considerare che, se si oppone, è perché il violento non desidera affatto mediare, bensì usare il tavolo della mediazione solo ed unicamente per poter continuare ad aggredire, offendere ed umiliare per l’ennesima volta la propria vittima, oltretutto madre dei suoi stessi figli.