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Arte & Cultura

Andy Caraway: la fotografa dei paesaggi puri con corpi asessuati

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Andy Caraway la fotografa dei paesaggi con i corpi
Tempo di lettura: 7 minuti

Andy Caraway, la fotografa genovese, racconta la genesi dei suoi progetti Sainte Victoire e Sole nudo in cui i corpi di qualunque genere ed etnia diventano vette paesaggistiche e i singoli, figure intime immortalate via Skype. 

Mani che sfiorano fianchi sinuosi e pieghe del corpo fuse l’una sull’altra in vette candide, regalano un’estasi visiva poderosa. Queste, le visioni impresse negli scatti di Andy Caraway (‘96), fotografa e videomaker genovese che plasma, alla stregua di madre natura, paesaggi con corpi asessuati, materia in una dimensione immacolata e condivisa. In un suo scatto, le paure, le insicurezze e i propri difetti sembrano quasi un miraggio e si è fragili, puri in tutta la bellezza delle forme.  

Uno stile frutto di esperienze ludiche, condivise con persone sconosciute e della sua cerchia nato 10 anni fa dall’amore di Andy per il romanticismo (con la concezione “natura = cattiva madre”) e che ha raggiunto il periodo d’oro nel 2019 con tre mostre: due a Genova e una a Parigi. Dall’obiettivo di quest’artista esteta, amante delle arti e delle atmosfere pure nascono due progetti. Sainte Victoire, una collezione di scatti fotografici di nudo che omaggia Cézanne e la ricerca dell’intima essenza della montagna francese; non a caso i soggetti sono disposti come catene montuose e colline. E Sole nudo, scatti realizzati via Skype a modelli di diverse parti del mondo. 

Nel 2023 espone a New York, mentre recentemente un suo scatto è stato selezionato per il Pride Club di Muriel, uno spazio culturale e di aggregazione per il mondo queer. Esperienze differenti, ma con al centro sempre corpi candidi dalle svariate forme e in spazi altrettanto immacolati, perché per questa fotografa non è contemplato altro colore. Andy è votata esclusivamente alla sua tonalità: il bianco; per la calma e la quiete che infonde. E se proprio dobbiamo sceglierne un’altra sarebbe il beige, che rievoca il colore delle sue mura di casa. Tutto il resto è distrazione! 

Non indugiamo oltre e scopriamo il mondo di Andy che, “nascosta nell’ombra” del suo set fotografico, scruta le forme e crea paesaggi altri da questo mondo. 

Uno scatto del progetto Sainte Victoire

Quando nasce la passione per la fotografia? 

«Da sempre. Quando ero piccola avevo sempre la macchina fotografica in mano e a 14 anni ho acquistato la mia prima Nikon d90. All’inizio, ho sperimentato il rubinetto che perde, la classica foto che se beccavi la goccia ti sentivi il padrone dell’universo. Non mi piacevano i ritratti, mi annoiavano perché le persone sanno come hanno il viso, ma non come hanno il resto del loro corpo, visto con occhi diversi e asessuati.

Così, 10 anni fa ho iniziato a fare foto con un mio amico perché nessuno si denudava (se faccio queste cose lo devo a quel ragazzo lì) e perché sguardi femminili su corpi maschili non ce n’erano così tanti. Abbiamo iniziato con i paesaggi, perché ero in fissa con il romanticismo e mi piaceva l’idea di uno scenario che non avevo in Liguria (quello delle foto è a due passi dalla fermata dell’autobus). Così, sono nati degli scatti con paesaggi rossicci e il soggetto al centro». 

 

Come definiresti i tuoi scatti? 

«Io li odio! (ride). Non mi piacciono, perché sono eternamente insoddisfatta; però la cosa che mi sento di dire invece di “mi piace questa foto”, è “mi piace l’esperienza che mi ha dato”. Più che descrivere la foto in sé, descriverei il momento: ludico. Gli scatti sono il risultato di un’esperienza condivisa con persone a volte conosciute e a volte no, che vogliono vedersi con occhi diversi.

Sembra in realtà quello che fanno tutti i fotografi, perché di base ti danno uno sguardo diverso su ciò che sei. Forse, la cosa un po’ più articolare è che i corpi sono senza sessualità, senza viso e niente di riconoscibile, e diventano altre persone anche se sono sempre le stesse. Alla fine, sono solo forma». 

 

 A Collateral dichiari “Sono sempre stata appassionata di tutto ciò che è artistico e creativo e ho sempre cercato di prendere il più possibile da ogni disciplina“. Qualche esempio? 

«Sparane una e c’è. Ho fatto quasi 10 anni di recitazione, grazie al quale ho capito cosa può fare il corpo e come può esprimersi; poi, mi ispirano il cinema (in particolare quello francese), la scenografia, il balletto, il teatro e la musica. Ma anche i videogiochi, come Bioshock con la cittadina sommersa di Rapture che dà un senso di angoscia, buio, solitudine e claustrofobia, oltre ad avere dei visual sottacqua pazzeschi» 

Uno dei primi scatti di Andy Caraway con paesaggi rossicci

Corpi asessuati che si intrecciano e diventano un tutt’uno nel progetto Sainte Victoire. Come sei arrivata a concepire questa visione? 

«Sainte Victoire nasce nel 2019, quando ho avuto la necessità di togliere tutto; avevo bisogno di avere pulizia e bianco per rilassarmi. Vedere questi corpi di qualunque etnia e genere uno sopra l’altro mi rilassa, e mi dà un senso di pace, comunità e fiducia, che ce ne vuole tanta per avere la pelle di qualcun’altro sulla propria. Volevo creare quel contesto safe in cui i corpi sono proprio appoggiati tra di loro delicatamente, nonostante i pesi differenti» 

 

Negli scatti si percepisce anche una visione body positive. Cosa rappresenta e quanto è importante per te questo movimento sociale di accettazione del corpo? 

«Da morire! Vuol dire accettare il proprio corpo e rendersi conto che merita di essere rappresentato e rispettato perché esiste. Anche se ho qualche centimetro in più di te, il mio corpo esiste ed è valido. È quindi tra le basi per stare bene, cosa che io non sto e quindi non sono al 100% body positive; questa cosa mi dà un fastidio infinito». 

 

 In che modo si sta evolvendo il progetto Sainte Victoire? 

«Ho trovato nuovi corpi! Sono contenta, ci sono dei seni tipo i miei. Questo perché spesso mi arrivano sempre corpi, passami il termine, “normali” o di modelle che fanno questa cosa tutti i giorni. Anche se, allo stesso tempo, non voglio nemmeno precludere a loro la possibilità di vedersi in modo diverso. Infatti, una sex worker abituata sempre a scatti erotici non si era mai vista asessuata ed era contentissima del risultato, perché si è vista con occhi diversi».


 Un altro dei tuoi progetti è Sole nudo. A cosa si ispira? 

«Durante la quarantena pensavo di aver avuto un’idea rivoluzionaria, ma in realtà l’abbiamo avuta tutti: scattare foto via Skype. Il mio progetto, però, nasce dal concetto del libro Sole nudo di Asimov che parla di una popolazione che vive sul pianeta Solaria, dove le persone non si possono toccare per paura di contrarre malattie.

Vivono tutti dentro delle bolle, si riproducono in modo stranissimo e il contatto con gli altri avviene tramite delle proiezioni virtuali; un po’ come noi in quarantena con Skype e i servizi online. È un progetto ancora non finito e ci sarà un’evoluzione sul supporto delle foto; ma niente spoiler per ora». 

 

Com’è stato fotografare via Skype? 

«Stranissimo! Facevo screenshot (che non faccio mai, a meno che non me lo chiedano) lo mandavo nella chat di gruppo e lo incollavo in un progetto di Photoshop, così la persona sapeva cosa avevo ripreso e decidevano se approvarlo o meno.   

In alcuni casi è stato pazzissimo, come la foto del gatto. Ho scattato una foto alla ragazza e, a un certo punto, sono arrivati anche i gatti; troppo buffo e carino! Era un’avventura per tutto. L’unica condizione che chiedevo per le foto era avere poca roba intorno e uno sfondo bianco; quindi, molte persone si montavano da sole il set e ritagliavano degli spazi.

Adesso, invece, fotografare una persona da sola mi fa stare male, perché crea un senso di solitudine non necessario. Considerando che ho il “potere” di creare queste forme in compagnia, perché non farlo, invece di lasciare da sola una persona?».  

 

Come avviene la selezione dei soggetti e come riesci a instaurare un rapporto di fiducia a distanza? 

«La selezione avviene per maggiore età, oltre al fatto di essere una persona safe, cosa difficile da capire online. Così, baso tutto sulla vetrina Instagram della persona (per quanto la visione sia falsata), se abbiamo amici in comune o se la persona è interessata cause e tematiche sociali; dopo la inserisco dentro una chat di gruppo. Per quanto riguarda la fiducia, non ne ho idea. C’è gente che mi dice “mi sembra di conoscerti da una vita!» 

Uno scatto del progetto Sole Nudo

A quanto pare sei in cerca di un luogo dove esporre l’installazione fotografica Sole nudo. Hai qualche luogo in mente e, al contempo, vorresti lanciare un appello? 

«A me va bene tutto basta che sia, indovina? Un posto bianco. Sembra tipo una cosa da suprematista bianca (ride) però è vero ho bisogno di una tela bianca, sennò poi mi distraggo.  Voglio che le persone entrino e si rilassino, perché c’è troppa ansia e voglio almeno che le altre persone si rilassino se non riesco io.

Mi viene in mente la mostra di Marina Abramović a cui sono andata nel 2019 e c’era un’installazione in cui stavi seduta, con delle cuffiette e dovevi contare un sacco di lenticchie. Prendersi un attimo con il tuo task, che bello! Vorrei una cosa del genere». 

 

Da uno strumento digitale Skype a un altro. Si parla più spesso di intelligenza artificiale per la creazione di foto e immagini. Cosa ne pensi a riguardo? 

«È una gran figata e, secondo me, ci stiamo preoccupando tutti un po’ troppo. All’inizio, anche la fotografia sembrava il grande killer della pittura. Comunque, i pittori esistono ancora. Si tratta solo di evolversi! Non escludo in futuro di usarla, anche perché giornalmente uso Chapt GBT per i testi, ed è come avere una seconda opinione o una linea guida. Una pacchettina sulla spalla che ti serve, anche se poi ce la fai tu. È chiaro che c’è chi ne abusa, ma se ne fai un uso consapevole può essere comoda e un’ottima “scorciatoia”».

 

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