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Il razzismo verso lo straniero è una violenta negazione delle capacità individuali

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Dalla viva esperienza di Gianni Pezzano, italo australiano nato ad Adelaide da famiglia italiana, le difficoltà dell’emigrato, i pregiudizi che affronta e la voglia di emergere grazie alla cultura

di Gianni Pezzano

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In Australia, come molti figli di immigrati italiani ho sempre frequentato le scuole cattoliche. Quando sono arrivato a quel che in Italia sarebbe la scuola media mi è stato negata la possibilità di studiare il Latino. Ero deluso, ma non potevo oppormi alla decisione e certamente genitori italiani allora non si sarebbero opposti alle decisioni di autorità di qualsiasi genere. Anni dopo quella decisione ha avuto un impatto particolare quando, dopo essermi laureato in Storia in Australia, ho cercato di iscrivermi per una laurea italiana in Storia e ho visto l’applicazione negata perché non conoscevo il Latino. Nel frattempo avevo già capito il motivo della decisione della scuola che nella mia ingenuità di adolescente non potevo capire. Gli studenti che hanno avuto l’opportunità di studiare la lingua, che poi era l’avo della lingua che parlo in casa, erano tutti di origini anglosassoni. In parole povere, la scuola all’epoca riteneva che gli studenti di famiglie immigrate non avevano le capacità intellettuali di poter fare gli studi più impegnativi. Ho cominciato a capirlo parlando con i miei coetanei e in particolar modo le amiche che avevano frequentato anche loro scuole cattoliche che all’epoca erano separate tra i sessi. Ho conosciuto tante ragazze che a scuola erano state consigliate a formarsi per una vita da parrucchiere, cuoche o da commesse soltanto a causa delle loro origini e a dispetto dei loro voti buoni negli studi. Per fortuna molte di queste studentesse italiane si sono impegnate negli studi per poi ottenere titoli di studio e dunque lavori importanti. Il tempo ha poi dimostrato che gli studenti figli di immigrati spesso sono i migliori proprio perché dovevano lottare di più per superare le barriere dei primi anni del percorso scolastico. Oggigiorno un controllo degli albi di tutte le professioni in Australia e tutti i paesi d’immigrazioni di massa dimostrerebbe la grande percentuale di professionisti con cognomi stranieri che smentiscono i pregiudizi. Questo atteggiamento delle scuole non era altro che una faccia del razzismo istituzionale verso chi non parlava bene la lingua del paese. Le autorità scolastiche tenevano conto solo che per loro questi studenti a un certo punto della vita non avevano le capacità linguistiche dei loro coetanei perché in casa non parlavano la lingua del paese. Questo era solo uno degli stereotipi che immigrati e i loro figli dovevano combattere per condurre una vita normale nel nuovo paese di residenza. Abbiamo visto tutti l’elenco che gira da decenni e ben prima del social media di cosa sono composti il Paradiso e l’Inferno. Cioè che il Paradiso è quel luogo dove la polizia è inglese, i cuochi francesi, gli ingegneri tedeschi, gli amanti italiani e organizzato da svizzeri. All’inverso nell’Inferno la polizia è tedesca, i cuochi inglesi, i meccanici francesi, gli amanti sono svizzeri e tutto organizzato dagli italiani. Questi sono semplicemente stereotipi nazionali e spesso falsi. Basta pensare che tre dei cuochi più pagati nel mondo sono Jamie Oliver, Gordon Ramsay e Nigella Lawson del Regno Unito per vedere che gli stereotipi son composti da immagini mirate e che per ogni categoria possiamo immediatamente pensare a nomi importanti di ogni paese ai vertici mondiali di ciascuna categoria. Per molti utilizzare la parola razzismo per descrivere questo comportamento è troppo forte e da evitare, però in molti sensi non è forte abbastanza. Come per gli esempi per gli studenti, in effetti questo atteggiamento di giudicare singole persone in base al colore della pelle, il passaporto dei genitori, oppure dalla loro religione è la negazione dell’individualità perché le vittime non sono giudicate, premiate oppure condannate per le loro azioni e le loro capacità personali, ma in base alle origini. Questi stereotipi possono anche fare ridere, ma spesso creano problemi di integrazione per i nuovi immigrati in tutti i paesi, peggio ancora quando le nostre esperienze personali dovrebbero farci capire che sono falsi e il danno che possono fare. Da troppo tempo proprio noi italiani siamo seguiti dall’immagine del mafioso e chi ha vissuto all’estero ha avuto esperienze del genere. Stranamente, in quasi tutti questi casi abbiamo sentito la precisione generica “MA ho amici italiani e sono brava gente”. Ora, sentiamo queste stesse dichiarazioni in Italia verso altri gruppi per poi sentire la precisazione , “MA i miei vicini (compagni di lavoro, amici) albanesi, rumeni, ecc, ecc è brava gente”. In teoria non ci vorrebbe molto per l’interlocutore a chiedersi se davvero tutti i componenti del gruppo nominato siano disonesti, purtroppo pochi arrivano a porsi questa domanda. Possiamo fare la stessa domanda a chi dice in un momento che gli immigrati “rubano i nostri lavori”, per poi contraddirsi dopo qualche minuto dicendo che questi stessi immigrati “sfruttano le nostre tasse e vivono sulle nostre spalle”. Ovviamente le due frasi si cancellano, però quelli che le pronunciano al bar, oppure condividono questi messaggi automaticamente sul social media non riconoscono le proprie contraddizioni. Non lo fanno perché sono cattivi, ma di solito lo fanno perché si sentono minacciati dal nuovo in arrivo rappresentato dalle lingue nuove per strada, i  modi diversi di vestirsi, le nuove verdure e prodotti alimentari che ora vediamo apparire regolarmente ai mercati e gli scaffali dei nostri supermercati. La paura ha la capacità di farci comportare in modo anomalo, ma non per questo dobbiamo accettare ciecamente gli stereotipi e il timore del mondo che cambia rappresentato dagli immigrati. Il razzismo non è un tema che porta a dividere buoni da cattivi.  Non affrontare questi timori non è una soluzione perché il prezzo di non intervenire è la violenza che vediamo nei giornali e i telegiornali quando ci scappa un morto. Non è un problema senza soluzione e abbiamo visto all’estero che è possibile trovare le soluzioni adatte per ogni esigenza. Allo stesso tempo dobbiamo anche guardare all’estero dei rischi di non affrontare apertamente i pregiudizi e i timori che hanno portato alla nascita di gruppi fanatici che sfruttano le delusioni di quelle generazioni nate nei paesi nuovi che si sentono oppresse per le loro origini. Non dobbiamo continuare a negare l’individualità dei nostri nuovi vicini. Come comunità dobbiamo riconoscere che ciascuno di noi he le stesse potenzialità per il bene e per il male e che alla fine quel che decide quale strada prende ogni individuo dipende anche da come viene trattato dal suo vicino. Una società si giudica da come cambia e negare il diritto di chiunque alla propria identità è un atto di violenza.

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