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Tecnologia

Ludicizzazione e neuroscienze: l’espansione della gamification

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Le neuroscienze hanno più volte studiato l’impatto della ludicizzazione dell’apprendimento sul cervello, il quale sembra meglio “disattivare” alcune sue modalità predefinite, di solito attive a riposo o quando non è impegnato in un compito cognitivo

di Antonio Virgili – pres. comm. Cultura Lidu onlus

Il termine ludicizzazione (gamification, in inglese) si riferisce all’applicazione di alcuni elementi tipici del gioco (ad es. punteggio, concorrenza con altre persone, regole di gioco) ad altre aree di attività.  Un concetto simile può essere reso anche da espressioni come “apprendimento basato sul gioco” e “gioco dell’apprendimento”.  Da una prospettiva didattica teorica, questi approcci erano stati collocati sotto il termine generico di apprendimento attivo, una tendenza educativa volta, si dice, a coinvolgere gli studenti e favorire l’applicazione della conoscenza rispetto alla sola acquisizione della conoscenza. Indicando il passaggio da un approccio centrato sull’esperto, che impartisce attività didattiche, a un approccio centrato sul discente.  

In effetti ciò non è del tutto corretto perché è piuttosto la sostituzione dell’esperto con un software o con una procedura di gioco che solo a livelli alti di complessità può avere la flessibilità di un esperto.    

Il gioco è certamente un’attività archetipica e giochi di varia natura fanno parte della nostra vita fin dall’inizio, all’interno del contesto educativo, l’educazione basata sul gioco e la ludicizzazione dell’apprendimento sono considerati approcci consolidati in diverse discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche.  Tuttavia, l’entusiasmo verso questo genere di applicazioni, se è sostenuto da alcuni indubbi vantaggi pratici, è anche limitato da alcune potenziali conseguenze negative e da alcune implicazioni generali, cui si accenna successivamente.

In ambito didattico, tra le caratteristiche positive c’è quella che gli elementi fondamentali del contenuto potrebbero essere più facili da testare con un approccio di ludicizzazione, inoltre l’apprendimento procedurale può trarre vantaggio da questo metodo, a condizione però che sia in atto un allineamento tra l’insieme delle competenze da apprendere e l’implementazione. In entrambi i casi, è necessario stabilire in anticipo un allineamento educativo tra i risultati dell’apprendimento ed i giochi, allo stesso modo per l’apprendimento delle conoscenze e delle abilità. Condividere questa logica con gli studenti potrebbe massimizzare la loro esperienza di apprendimento. Come testimoniano varie applicazioni, la tecnologia non è però una condizione strettamente necessaria, sebbene possa essere proficuamente utilizzata, se consentito dalle risorse disponibili all’interno di uno specifico contesto didattico.  

Il ruolo dei giochi nell’istruzione continua comunque ad evolversi. L’integrazione dell’apprendimento basato sui giochi con la tecnologia è diventata sempre più comune e ha contribuito ad una crescente letteratura didattica che sostiene l’uso di tecniche di apprendimento incentrate sui giochi. Di recente alcuni di questi approcci sono stati applicati anche all’educazione medica di livello universitario.  

Le neuroscienze hanno più volte studiato l’impatto della ludicizzazione dell’apprendimento sul cervello, il quale sembra meglio “disattivare” alcune sue modalità predefinite, di solito attive a riposo o quando non è impegnato in un compito cognitivo.   Risulterebbe utile poter applicare alcuni risultati della neuroscienza cognitiva e della neurologia all’istruzione, anche per quanto riguarda l’apprendimento potenziato dalla tecnologia, per identificare biomarcatori o correlati del coinvolgimento degli studenti durante l’attività di apprendimento. Nello specifico, ciò è già stato sperimentato con l’EEG oscillatorio, che è stato utilizzato per tracciare l’attenzione, la motivazione e la vigilanza durante l’apprendimento basato sul gioco. Da una prospettiva più generale, questi studi potrebbero portare nuovi suggerimenti basati sulla ricerca neurologica collegata all’educazione, moderando facili entusiasmi ed innovando ulteriormente le metodologie.

    La “gamification“, ovvero l’applicazione di alcuni elementi del gioco per contesti non di gioco al fine di coinvolgere gli utenti e affrontare i problemi del mondo reale, è stata applicata a vari altri ambiti oltre quello educativo, considerandola come una potenziale soluzione per migliorare l’esperienza dell’utente, aumentare l’apprendimento, cambiare il comportamento, alleviare la noia e così via. Se i primi studi sulla ludicizzazione si sono concentrati principalmente su determinati contesti, come la scuola, l’assistenza sanitaria e gli affari, successivamente si è molto allargato l’ambito di applicazione.   Tuttavia, quando la ludicizzazione è stata sperimentata in contesti lavorativi si sono evidenziati alcuni correlati prima non evidenti.   Ad esempio, nella gamification di Disneyland, la produttività in tempo reale di ciascun dipendente è stata mostrata in classifiche ed è diventato chiaro che questo li ha inaspettatamente obbligati a competere tra loro e demolito la loro cultura collaborativa. Quando un’azienda farmaceutica e sanitaria americana, ha introdotto un sistema di relazioni con i clienti ludicizzato, per ridurre i tempi di risposta, i suoi dipendenti si sono sentiti molto a disagio con il monitoraggio segreto delle loro prestazioni, con conseguente aumento del tasso di turnover e di riflesso una minore soddisfazione del cliente.    Lo studioso Roger Caillois richiamava l’attenzione sul fatto che i sistemi ludicizzati non sono ottimali sempre e comunque, in alcuni casi rischia di prevalere la percezione edonica fine a sé stessa (come talora in ambito didattico), in altri casi fornisce meccanismi da competizione permanente che possono produrre nei partecipanti effetti di allontanamento anziché di coinvolgimento.         In questo senso, vari studi sulla ludicizzazione hanno affermato che dovrebbero essere inclusi dei motivatori intrinseci, mentre l’approccio di gamification convenzionale ha semplicemente pensato di fornire esperienze di gioco più divertenti ed eccitanti, credendo che il gioco stesso potesse servire a promuovere la propria motivazione intrinseca a giocare. Sfortunatamente, l’effetto di adattamento edonico (cioè la tendenza degli esseri umani a tornare rapidamente a un livello di sensazione relativamente abituale, nonostante le esperienze positive o negative) impedisce a questa motivazione di gioco di durare a lungo.      Le precondizioni per la motivazione intrinseca erano già rappresentate dalla teoria cognitiva sociale di Bandura, che mostrava come i comportamenti umani siano naturalmente motivati ​​da tre sotto-funzioni: a) automonitoraggio del proprio comportamento (cioè un feedback appropriato porta al comportamento corretto);  b) giudizio sul proprio comportamento in relazione agli standard personali e alla cultura organizzativa (vale a dire, la morale personale e organizzativa detta il comportamento); e 3) reazione affettiva (cioè, l’eccitazione emotiva che evoca il comportamento).    

Si è oramai dimostrato che concentrarsi troppo su “divertenti” esperienze di gioco è l’approccio sbagliato, grazie al suo effetto di adattamento edonico a breve termine, così come al potenziale rischio morale di prendere in giro il lavoro, sul posto di lavoro, o l’istruzione, in ambito scolastico-didattico.   I risultati sperimentali hanno anche rilevato un’insensibilità edonica simile nel tempo, dimostrando che, indipendentemente da uno schema ludicizzato o non, la desensibilizzazione degli sforzi fisici attraverso esperienze di gioco o altri incentivi estrinseci non è la soluzione migliore.  Ciò perché sono procedure che rinviano indirettamente ai concetti economico-aziendalistici di ottimizzazione, efficienza, efficacia, competizione, risparmio, ecc., concetti che spesso non costituiscono dei motivatori adeguati, e comunque raramente essi risultano intrinseci.  Ѐ la significatività degli eventi e dei contenuti che determina la motivazione intrinseca delle persone, non il gioco in sé o le sue procedure. 

Anche il “gioco” più coinvolgente, riproposto a ciclo continuo, tende a diventare noioso e ripetitivo, come sottolineava Blaise Pascal “La continuità annoia in ogni cosa”.

Diverso il discorso nell’ambito della selezione ed orientamento del personale, per le quali la ricerca neuroscientifica ha fornito un supporto ulteriore a favore della ludicizzazione, attraverso valutazioni fondate su algoritmi predittivi basati su neuroscienze cognitive e comportamentali.    Gli algoritmi predittivi analizzano i dati raccolti, identificano i modelli e producono report automatizzati.   Ma è bene precisare che non tutto ciò che è ludicizzato è automaticamente valido e fornirà le informazioni più affidabili.  Come la maggior parte delle cose, la gamification ha i suoi pro e contro. L’aspetto più importante da considerare è che i giochi sono affidabili solo se supportati da un’ampia ricerca neuroscientifica ed eventualmente convalidati come nuovi strumenti scientifici.   I giochi neuroscientifici misurano le capacità cognitive ed i tratti comportamentali, queste misurazioni indicano sia le competenze di qualcuno, sia i comportamenti e le risposte a determinate situazioni che potrebbero verificarsi sul posto di lavoro. Perché queste informazioni sono più affidabili delle informazioni ottenute da curriculum o lettere motivazionali? Perché l’abilità cognitiva generale (GCA) è il più importante fattore determinante delle prestazioni lavorative ed è il miglior predittore dell’apprendimento correlato al lavoro.  Un esempio di capacità cognitiva è la capacità di problem solving. I giochi possono misurare e facilitare la misurazione delle competenze trasversali come la risoluzione dei problemi e, quindi, le misurazioni raccolte attraverso questi giochi forniscono previsioni migliori per le prestazioni lavorative future.       Da questo punto di vista tale genere di valutazioni sono diventate un metodo efficace per aiutare a cambiare in meglio il modo in cui si percepiscono e valutano le persone. Consentendo di esplorare alcuni dei processi cognitivi delle persone, rivelando aspetti comportamentali individuali e fornendo informazioni sul potenziale e sui talenti di qualcuno.

   In sintesi, le potenzialità della ludicizzazione saranno maggiori se il gioco non viene orientato prevalentemente sugli aspetti della competizione o gara e se non prevalgono gli incentivi esterni, ma viene inteso, più propriamente, come un’attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, le persone, senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago. Solo allora il gioco sarà di aiuto, sviluppando ed esercitando, nello stesso tempo, capacità fisiche, manuali e intellettive. Solo allora sarà un metodo ludico efficace, che non viene proposto per accrescere la competizione, mascherandola, o solo al fine di ridurre la ipotizzata noia, cosa che coinciderebbe con il paradosso di Emil Cioran: “C’è solo una cosa peggiore della noia: la paura della noia.”

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