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Arte & Cultura

I festival lirici antologici, le nuove opere e il Rof

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Eccellente il Festival Rossini 2023. Grande attesa per un grande 2024, presentato a New York, Berlino e Shangai.

Di Sergio Bevilacqua

Ed ecco riaccendersi il dibattito sull’attualità dell’opera lirica con le interpretazioni musicali sinfoniche e vocali su messinscena filologica, le reinterpretazioni sistemiche da nuove regie, le nuove opere.

Un primo parere è del Maestro Marco Tutino che ha attraversato l’intero ambito della odierna riflessione: curriculum di produzione operistica italiana contemporanea, Direzione Artistica e consulenza per importanti teatri Tutino afferma: “Il genere di Teatro musicale Opera lirica italiana, dopo essersi rigenerato nel corso di oltre 400 anni, sta per estinguersi. L’opera più giovane, stabilmente entrata nel repertorio mondiale, ha quasi cent’anni: nessuna forma d’arte resisterebbe a questa asfissia. Un’agonia, che si manifesta anche nel bisogno di violentare le drammaturgie dei testi musicali e letterari, per trasformarli in quel nuovo che non c’è, ma del quale ormai si sente il bisogno. Dovremmo discutere di questo, e non di come viene interpretato un titolo del passato. Ma temo che la vita e la morte dell’opera siano molto meno social-attractive delle sue messe in scena.”

Interessante posizione di un ottimo compositore e operista, Tutino s’inserisce nel filone di quella che lui chiama l’”Opera Italiana”. Genere di sicuro esistente, ben qualificato e diverso rispetto alle produzioni di nomi importanti anche nel panorama internazionale di operisti italiani (Battistelli, Colasanti, Vacchi, Filidei…). Il 900 e il terzo millennio vedono l’Italia non leader ma rimanere fortemente originale. Il problema sollevato vigorosamente da Tutino riguardi la esigua quantità di commissioni per opere originali di lirica italiana attuale, rispetto alle riedizioni di opere liriche del passato.

Dunque, opposizione di un operista di oggi ai programmi dei Teatri che non premiano le produzioni originali. E il de profundis conseguente, che suona quasi come un j’accuse, ragionato ma anche leggermente opportunistico. Estremizzando si perde la lucidità, quando la materia non è matematica: forse si accresce il consenso, ma il bene è altrove. La contrapposizione di commesse per revisione registica di opere del passato e commesse di nuove opere del presente è fuorviante. Hanno in comune un solo aspetto: il portafoglio. Mi si dirà, sorridendo: ed è poco secondo lei, signor sociologo della prassi? No, poco non è, assolutamente! Ma nemmeno si può affermare che per vendere più mele si debba raccogliere meno pere. Si rischia di venire accomunati ai più conservatori talebani dell’“audio” come mio nonno, che fumava nel foyer in attesa della romanza clou, salendo e scendendo dal suo palco la domenica pomeriggio, e che diceva a mio padre che per capire se un’opera è bella occorreva calare la testa sotto il parapetto e non guardare, ma solo ascoltare. Anacronistico e riduttivo, perché l’opera lirica nasce audiovisiva: è il “recitar (per primo) cantando” e oggi la cultura visiva è al massimo della sua importanza antropologica. Il lavoro di registi, scenografi, coreografi, esperti di luci, costumisti e la presenze sceniche di cantanti, mimi e attori, sono importanti quanto mai. Un’opera d’arte, dice il sociologo dell’arte, ma anche lo storico dell’arte e lo studioso di estetica, è per sempre, e l’arte vera riesce sempre ad essere contemporanea: puoi maltrattarla ma lei resiste, ed è quindi semplicemente un problema d’interpretazione. Ecco la parola: interpretare la eternità dell’arte e coglierne gli aspetti appropriati al momento d’oggi (Michieletto, Vick, Poda, Wilson) fosse anche la rievocazione del passato in modo filologico (Zeffirelli, Pizzi) oppure profondamente simbolico (Martone, Bernard).

Chi ha avuto modo di seguire quest’anno il 44° Rossini Opera Festival, con i suoi tanti straordinari appuntamenti e con il clou delle 3 opere (Eduardo e Cristina – Poda, Adelaide di Borgogna – Bernard, Aureliano in Palmira – Martone), della Petite messe solennelle in forma di concerto (direttore Michele Mariotti) e del delizioso concerto di Cecilia Gasdia al piano e di sua figlia Anastasia Bartoli alla voce, non potrà che convenire. Infatti, l’acuta direzione artistica del festival pesarese, Juan Diego Florez ben ambientato nella ridente città marchigiana, ha saputo dare il giusto peso alle attuali correnti registiche sulle opere d’arte eterna di Gioachino Rossini, addirittura facendo correre un cavallo. pazzo ma di razza, come Stefano Poda in un ippodromo appropriato alla sua sbrigliata visione e creatività, cosa successa anche con mio no-comment all’Arena con Aida… Come mai? Eduardo e Cristina è un’opera quasi sconosciuta ovunque e in Italia non rappresentata dal 1840, ove la trama e la fama non sono così strutturate e complesse come nel capolavoro verdiano (una buona direzione artistica avrebbe dovuto capirlo…) e si presta benissimo all’intraprendenza semiologica e semantica del regista trentino. Centro perfetto non avuto a Verona e ottenuto invece a Pesaro. Ammaliante la cornice algida di resti umani e cadaveri, a ricordare la follia della guerra, qui quella russo-svedese, simbolizzata da echi di eccidi otrantini nella scenografia dello sfondo e da non-morti in eccellente coreografia. Anastasia Bartoli in Cristina esprime tutta la vita che manca suggestivamente a quanto detto. Ci si domanda come una voce wagneriana o anche tardo-verdiana sia riuscita a dare tanta allure all’opera rossiniana… Anche qui la spiegazione sta nel fascino del personaggio, almeno per essere figlia di Cecilia Gasdia, nel proporsi come una spigliata dark-lady dei soprani contemporanei e negli spazi appropriati che la regia le ha ricavato eccezionalmente. Sentita poi in concerto con la madre, confermo assolutamente la sua wagnerianità, ma anche la qualità dello studio con cotale maestra: non è facile Rossini, lo studio è fondamentale, ma con Wagner o ci sei oppure nisba. Una notazione in più su questo concerto madreffiglia eccezionale e foriero di molto ancora: erano in perfetta sintonia e nei loro panni entrambe, con spunti personali commoventi e presenza scenica realmente contemporanea. Che brave, anche Cecilia… Che madre e maestra! Perché generare Arte è come generare Amore o Amicizia. E la Gasdia con la figlia ormai c’è riuscita.

Ed ecco Adelaide di Borgogna, trama teatrale per eccellenza, con castelli (Canossa) nella scenografia e una vicenda storica emblematica di confronto tra Sacro Romano Impero tedesco e suoi lasciti italici, in attesa della grande querelle sulle investiture dei vescovi di pochi decenni dopo, con protagonisti Enrico IV, Gregorio VII e Matilde di Canossa. Bernard dà slancio alla trama con espediente meta-teatrale che funziona benissimo e rinfresca a puntino. Gradevolissimo spettacolo, molto ben riuscito e davvero buona la direzione del delfino di Lanzillotta, caduto in un brutto incidente stradale, Enrico Lombardi.

Mario Martone effettua la regia di Aureliano in Palmira. La ricordiamo, dieci anni fa nella sua prima messinscena. I luoghi attraversati dalla guerra di Siria lasciano la mente ingombra di tristezza e di gravi problemi di un contrasto multiplo, ove alle caratteristiche culturali di differenza tra Oriente e Occidente del lontano passato di Aureliano e Zenobia, si abbinano quelle attuali. Molto gradevole e ancora intelligente la revisione di oggi, con lo studio del labirinto, le capre libere sul palcoscenico e il clavicembalo a ricordare una cifra di Rossini: i testi del libretto aprono le porte alla spiegazione dei sentimenti ottenuti attraverso il concertato, in un continuo duetto capace di elevare le curve drammaturgiche e fare apprezzare l’invenzione musicale in se stessa, non come commento ma come autonomo oggetto di catarsi. Qui una delle grandezze sempre sorprendenti del musicista pesarese: proprio musicista, artista della musica come forma autonoma della magia operistica. Nulla da dire nemmeno su George Petrou e le voci, che accompagnano in questo spettacolo fresco e intuitivo, con un implicito martoniano di critica all’Occidente molto in voga pure oggi, anche se spesso stranamente autolesionistico.

A chiudere l’esperienza ottima del ROF 2023, un’emozionante Petite messe solennelle con la direzione di Michele Mariotti, che torna a casa nella sua Pesaro sempre più coperto di successi, a donare al suo primo pubblico con grande sicurezza e generosità una interpretazione magistrale.

Nel frattempo, viene presentato il ROF 2024. Il Festival, che si svolgerà nell’anno in cui Pesaro sarà Capitale italiana della cultura, proporrà dal 7 al 23 agosto 2024 ben cinque opere per un totale di trenta spettacoli. Inaugurerà il Festival una nuova produzione di Bianca e Falliero, diretta da Roberto Abbado e messa in scena da Jean-Louis Grinda. L’opera mancava al ROF dal lontano 2005. Seguirà un’altra nuova produzione, Ermione, affidata alla bacchetta di Michele Mariotti e alla regia di Johannes Erath. Il titolo non veniva eseguito al Festival dal 2008. Due le riprese: L’equivoco stravagante ideato per il ROF 2019 da Moshe Leiser e Patrice Caurier, diretto da Michele Spotti, e Il barbiere di Siviglia di Pier Luigi Pizzi, creato per il ROF 2018 e stavolta diretto da Lorenzo Passerini. Chiusura con la celebrazione del quarantesimo anniversario della prima esecuzione in tempi moderni del Viaggio a Reims, che sarà presentato in forma di concerto con la direzione di Diego Matheuz.

La quarantacinquesima edizione è stata presentata nella sede del Consolato d’Italia a New York, con Console generale Di Michele, Sindaco di Pesaro Ricci, Sovrintendente Palacio, Direttore artistico Juan Diego Flórez. Altre tappe della promozione mondiale, Berlino e Shangai. È prevedibile che la grandeur del 45° ROF s’innesterà come un amplificatore sulla bellezza consumata quest’anno.

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