Attualità
Castelrotto: opera prima del regista Damiano Giacomelli su vendetta e disinformazione
Un mistero che riporta a galla vecchie faccende intrise di rancore e vendetta di un ex cronista in pensione: è il tema di Castelrotto film del regista Damiano Giacomelli. Un’opera prima con l’invito ad andare oltre i dualismi.
Una foschia obnubila un paesino degli appennini maceratesi, come una patina avvolge mente, vista e udito di un suo abitante; solo che in questo caso il velo è fatto di rabbia e rancore. Questa figura, all’anagrafe Ottone Piersanti (Giorgio Colangeli) è il protagonista di Castelrotto, film indipendente e opera prima del regista marchigiano Damiano Giacomelli, prodotto da Yuk! Film e in questi giorni nelle sale italiane. Un revenge movie, con tratti di commedia noir che ruota, dunque, intorno al protagonista: burbero maestro di elementari ed ex cronista in pensione, dal passato in una band di ormai vecchiarelli che trascorre le giornate in semi apatia, sporadici contatti con la figlia e una moglie giornalista assente (Antonella Attili).
Le giornate volano e tutto tace in un paese spopolato e quasi isolato dal mondo, nulla scuote la sua e le vite degli abitanti. Ma un giorno, qualcosa di misterioso accade e per Ottone sarà il pretesto per avvicinarsi di nuovo alle storie, sua grande passione. Riprende in mano penna e macchina da scrivere, deragliando i fatti a suo piacimento solo per vendicarsi di un torto familiare.
In un percorso degno di un ottovolante, Ottone, sfreccia fra passato e presente con picchi di adrenalina impressi in un registratore rudimentale e microfono alla “Canta tu” e livore, mentre intorno a lui arriva il vento della tecnologia.
Un film “allucinogeno” che mostra invero tematiche concrete: dalla solitudine, a storie e fatti eclatanti che animano la propria vita e i giornali, alla disinformazione, fino alla perdita dell’etica e di pezzi comunitari. E alla fine è lecito chiedersi: dove sta la ragione e il torto?
Un’opera a cui il regista Damiano Giacomelli, con all’attivo circa 70 opere tra cortometraggi e documentari, affida la sua passione per articoli e titoli di giornale. Eh già, perché cresciuto a pane e notizie, anziché cinema, Damiano scopre la passione per la regia casualmente, dopo un esame di cinema a un corso di giornalismo. Ma questo regista una cosa l’ha sempre saputa: Ottone era dentro la sua testa, latente, fino a trovare espressione oggi sul grande schermo.
Cosa che gli è valsa la selezione alla quarantunesima edizione del Torino Film Festival e un’accoglienza positiva di critica e pubblico.
Dopo corti e documentari, quando arriva l’idea per il film Castelrotto?
«Il lungometraggio è un salto quantico in una dimensione completamente diversa. Abitavo vicino a un’edicola, a Tolentino nell’interno maceratese, e spesso mi incuriosivano i titoli dei giornali e quotidiani locali sugli accadimenti reali e le loro evoluzioni. Mi interessavano i fatti in sé e come venivano raccontati in una fase di passaggio nel 2015/16 tra l’informazione cartacea e quella web. Raccoglievo questi piccoli fatti e li filtravo attraverso un punto di vista, una voce che era quella del personaggio principale del film (che ho scoperto dopo).
Ho sentito la voce di Ottone prima ancora di figurarmelo dall’esterno visivamente; poi ho cercato di capire le motivazioni che lo spingono all’atteggiamento iniziale, in mezzo a una crociata conservatrice, un po’ chiusa e rancorosa. C’è questo elastico che nella parte centrale del film vede alternare delle chiusure ultraconservatrici, ad aperture psichedeliche sul finale. Lui, paradossalmente ricollegandosi all’indagine e a quello che ama fare (la scrittura), anche se lo fa per rancore, risveglia una passione che genera delle aperture».
Perché hai scelto proprio il nome Castelrotto?
«Il titolo è un nome di finzione. Si riferisce alla frazione di un paese in cui sono cresciuto (Ripe San Ginesio), però il film non è ispirato a quella frazione. Mi sembrava un termine giusto per quello che racconta il film e per il paese che è in pieno spopolamento e in cui la dimensione comunitaria sembra perdere i pezzi».
Sapevi già che sarebbe stato Giorgio Colangeli l’attore ideale per interpretare Ottone o avevi qualcun’altro in mente?
«Mentre scrivevo non lo sapevo, però quando lui ha letto la sceneggiatura ne abbiamo parlato ed era già talmente dentro il ruolo che è stato facile e giusto sceglierlo. Poi è un grandissimo attore e nella realizzazione del film è andato anche molto oltre, superando le aspettative già alte sia dal punto di vista professionale, che umano. Questa è stata una piccola produzione con tutti i limiti e i vantaggi, come la libertà».
Parli di limiti. Qual è stata la difficoltà più grande da affrontare durante le riprese?
«A metà riprese, in diversi, ci siamo presi il covid e abbiamo dovuto interrompere la produzione per due settimane. Se fosse stato il caso di una troupe legata solo da un fattore professionale, questo avrebbe fatto saltare il film. Invece la comunità fatta di persone che si conoscono, anche da anni, creata intorno a questo film ci ha aiutato a resistere a questi e ad altri episodi».
A Rainews dici che «questi personaggi non potevano non parlare altre lingue dal dialetto». Come mai questa scelta?
«La prima cosa che ho percepito di Ottone è stata la voce e parlava in dialetto. Per il personaggio principale e il contesto di cui faceva parte (il paese) quel suono era inevitabile. In qualche modo, è stato proprio il personaggio a chiederlo; poi è molto vicino al modo in cui parliamo nell’area in cui vivo».
Si parla di storielle inventate nel film e anche di “cose grosse”. Secondo te com’è cambiato il modo di raccontare?
«Le cose grosse, nel senso di fatti storici ed epocali raccontati dalla grande cronaca, di solito vengono affrontati con una voce che non appartiene alle persone e lontana dall’umanità, dall’emozione e dallo scambio. La voce di Ottone, il suo modo di approcciarsi all’informazione locale è vicina a esempi che ho riscontrato facendo ricerche per il film, e rappresenta la biodiversità di racconto che c’è in provincia e altrove.
Oggi, invece, i grandi fatti vengono raccontati soprattutto nel web con delle forti polarizzazioni, violenza più spinta e semplificazione maggiore dei concetti. Un modo difficile e lontano dall’esperienza e dalla voce di Ottone. Il film racconta, in qualche modo, anche la transizione di questi due linguaggi legati alla cronaca, che nella zona mia abbiamo vissuto prima con il sisma e poi con altri fatti drammatici che hanno portato gli onori della cronaca in zone che non l’avevano mai avuta. Quindi la voce è cambiata creando una comunicazione violenta che ha modificato l’approccio».
Nel film emerge anche un tema attuale: le fake news. Secondo te, oltre a veicolare fatti non veri, quali sono le altre conseguenze della disinformazione di cui Ottone inizialmente non si rende neanche conto?
«Nel momento in cui incontriamo Ottone la deontologia professionale è minata dalle sue spinte personali di vendetta e rancore; ma lui nella prima parte rappresenta in qualche modo tanti piccoli intellettuali decaduti di un paese di provincia, che hanno abdicato anche al loro progressismo e senso etico, perché la crisi economico sociale o altri episodi li hanno portati fuori dall’etica e visione del mondo.
In questo processo sicuramente lui segue la spinta, la propria urgenza, e mi piaceva che in questo arco lui riuscisse a superare la necessità di avere torto o ragione e andare oltre».
A un certo punto a Castelrotto arriva la tecnologia: riprese con il cellulare, views degli articoli che aggravano la gogna mediatica verso chi odia. La tecnologia, dunque, insieme alle ipotesi e all’invenzione diventano un’arma per la vendetta personale. Secondo te esiste un modo per rinsavire dall’uso sbagliato di internet?
«La tecnologia ci ha reso molto veloci nell’azione, nell’applicazione diretta e nell’espressione, ma a livello interiore non abbiamo quella velocità nel processare le cose che vogliamo dire o esprimere. Il problema della dittatura del dover prendere posizione, stare sui trend topic tutti i giorni e avere qualcosa di interessante da dire va veloce, ma non va altrettanto veloce il movimento interiore che dovrebbe portare a voler comunicare qualcosa.
Il problema sta un po’ lì. Quando viene utilizzato uno strumento per esprimere un’intenzione comunicativa o un’urgenza penso che tutti gli strumenti siano validi, ma quando è lo strumento che detta quello che devi fare allora è un problema».
Nel film vengono meno valori, etica e deontologia; ma Ottone non era così un tempo. Pensi che sia più la verità dei fatti che salvi da sentimenti negativi o la considerazione e vicinanza degli altri?
«Penso che le due cose dialoghino. La verità non è una sentenza, ma uno stato interiore che vivi e vivendolo risolvi più facilmente cose concrete o pensi che non hai più bisogno di calcare la mano su determinate cose.
Questa indagine, per quanto costruita su presupposti che diremmo un po’ beceri, porta il protagonista a entrare in contatto con ciò che ama e le persone con cui è a contatto».
Qual è il messaggio principale che vuoi dare con il film?
«Mi piaceva raccontare la contraddittorietà del percorso di Ottone: da molto rancoroso e chiuso, ad aperture e un rapporto con quello che gli piace fare e le persone con cui sta bene. La cosa che mi interessa di più è andare oltre i dualismi di oggi (o è questo, oppure quest’altro). In realtà, le cose nella vita reale si fondono continuamente, e la vita è la risultante di queste cose.
Poi, ho provato a lavorare sicuramente nella direzione di interazione con lo spettatore, lasciando delle aperture e la possibilità di un dialogo».
Il film ha ricevuto grandi consensi a Roma, Milano e Torino. Ti aspettavi questo successo?
«Mi capita di essere autocritico, ma in questo caso ero tranquillo sul film. Sicuramente a Torino la selezione per il Festival è stata importante; poi mi ha fatto piacere fare tanti incontri con il pubblico e ricevere tante recensioni e commenti di persone molto qualificate sull’audiovisivo.
Arrivare al pubblico è una dimensione bella, soprattutto nello scambio che si crea con le persone; poi è un film che genera interpretazioni. Qualche volta, mi arrivano messaggi che vanno oltre quello che pensavo mentre ci lavoravo e questo è molto bello».
Quali sono i punti di forza di questo film?
«Il punto di forza per me, sia in fase di scrittura, che di ripresa è stato il divertimento nel girarlo, cosa che non si dovrebbe dimenticare. Ho iniziato a fare questo lavoro, perché lo trovavo piacevole e stimolante; secondo me è sbagliato se lasci che altri aspetti diventino prioritari. Poi il pubblico e chi lo vedrà saprà dare le proprie valutazioni».
Siete in pieno tour di distribuzione del film, quali saranno le prossime tappe?
«Padova, Torino e poi torneremo a Milano».
Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
«C’è un documentario che inizieremo a girare in primavera e occuperà almeno un annetto, poi altre piccole cose su commissione».