Connect with us

Cinema & Teatro

Il Flauto Magico: regina della notte o solare sarastro?

Published

on

Tempo di lettura: 4 minuti

Roma e Verona compongono un quadro ortogonale del capolavoro mozartiano.

Di Sergio Bevilacqua

Nell’Italia operistica di questo 2024, gennaio è il mese de Il Flauto magico di Mozart, Die Zauberflöte (Prima storica a Vienna il 30 settembre 1791, a poche settimane dalla morte di Mozart) con due produzioni diversissime: una, ripresa del 2015 di Fenice e Maggio fiorentino, con regia di Damiano Michieletto al Teatro Costanzi o meglio Teatro dell’Opera di Roma; la seconda, una nuova produzione invece, con la regia di Ivan Stefanutti al Teatro Filarmonico di Verona. Entrambi formatisi a Venezia i due registi.

Nel 1791, Vienna è allarmata delle gravissime notizie del consolidarsi della Rivoluzione francese, con i sospetti dell’aristocrazia sul coinvolgimento della Massoneria nella rivoluzione stessa. È intorno ai valori simbolici della organizzazione massonica appunto che gravita la trama: una organizzazione segreta, espressione di nuovi poteri economici, che si propone come veicolo di promozione sociale sul piano dei valori personali e non dei diritti di casta, ricca di simbologie e riti iniziatici, androcentrica e ginecofobica… Il nostro Mozart, come il suo librettista Schikaneder, sono naturalmente orgogliosamente iniziati e, data la molta freschezza della musica e del messaggio mozartiano, anche qui la lettura della organizzazione segreta è molto benevola ed entusiasta, mentre il regime austriaco stringe i controlli sulla stessa.

Due spettacoli molto diversi quello di Roma e quello di Verona.

Il primo nel pieno stile di Michieletto molto originale dal punto di vista delle scelte di rappresentazione semiologica, come sempre dopo un profondo studio a cui il regista veneziano ci ha abituato, che ottiene effetti interessanti di reinterpretazione, adatti per un pubblico maturo che conosce già l’opera.

La messinscena domenicale del Teatro Filarmonico di Verona bacia sulla fronte il pubblico più giovane e introduce allo studio di un’opera complessa e molto suggestiva anche nella interpretazione filologica della trama e della sua attuazione tramite espedienti di tipo tradizionale, sempre molto avveduti grazie all’estro di Stefanutti e a grande esperienza della Fondazione guidata da Cecilia Gasdia.

Due immagini di riferimento per la prima e la seconda messinscena: la prima, romana, ci dà una idea di tragedia e di malinconia dovuta alla scenografia molto frontale e alla scelta dell’ambientazione in un contesto assolutamente eterodosso per quanto riguarda la trama mozartiana; l’effetto filosofico risulta comunque avvincente, come è solitamente la ricerca di questo regista che è molto consapevole di ciò che la creatività oggi può produrre soprattutto nell’ambito visivo dello spettacolo più grande nell’arte mai esistito, quello dell’opera lirica che attraversa un pò tutte le specialità del Parnaso. A Verona il pubblico molto appassionato che ha riempito ogni ordine di posti del bel Teatro Filarmonico era anche costituito da famiglie. Dai discorsi sollecitati nel foyer durante l’intervallo i figli, tanti ragazzi piccoli e meno piccoli, hanno trovato nella messinscena un elemento molto emozionante di immedesimazione e quindi hanno ottenuto certamente ciò che si deve chiedere al teatro: catarsi, un benefico senso di distrazione dalle cure correnti così chiamato fin dalle dionisie del 500 a.C..

Se è stata sicuramente catartica per il target dei ragazzi l’esperienza di Verona, non si può negare lo stesso risultato in particolare sul target maturo anche per quella di Roma, con aspetti provocatori e intellettuali che hanno spostato la trama così sognante, onirica e avvincente del capolavoro mozartiano verso orizzonti di critica sociale e intellettuale sicuramente importanti e avveduti. Micheletto è sempre consapevole degli effetti di ciò che fa, da artista regista di livello globale quale è, come anche altri della storia recente ancora operativi come l’americano Bob Wilson, o viceversa il povero Graham Vick, come Stefano Poda già presente sulla piazza di Verona con la regia molto innovativa dell’Aida, piatto forte del centenario del più noto festival operistico del mondo.

Micheletto poi è di quei registi che si rendono conto dell’importanza del loro contributo sia all’interpretazione dell’opera che anche al successo dei teatri che lo ospitano. Un’altra esperienza storica importante mi ha dato recentemente una sensibilità particolare: gli 8 anni di gestione del Teatro Regio di Parma da parte della bravissima direttrice generale Annamaria Meo. Gli stupendi cartelloni annuali da lei prodotti, con sempre regie innovative alternate a più tradizionali, avevano però portato molti affezionati tradizionalisti e integralisti dell’opera lirica a non rinnovare l’abbonamento. Va detto che Parma è famoso anche per il suo loggione, che non è che tagli la testa al Toro sulla qualità dell’opera, ma rappresenta certamente un punto di resistenza di ciò che l’opera lirica è stata prevalentemente durante il diciannovesimo secolo e forse nella prima metà del ventesimo. È infatti solo dopo che è cambiata, radicalmente e progressivamente: il focus è così transitato dagli elementi audio dalla musica e dal canto, che pur rimangono principali e continuano a percorrere il loro binario, a quelli invece del video quindi di scenografie fisiche, costumi, luci e dell’uso delle nuove tecniche soprattutto video nella creazione delle scenografie. Micheletto, in una chiacchierata che facemmo al teatro del Maggio Fiorentino in occasione della sua bellissima regia di Alcina di Handel, parlando della figura del dramaturg mi disse che a suo avviso si trattava di una figura che metteva in qualche modo dei limiti alla creatività del regista ma gli toglieva anche molti problemi con le istituzioni teatrali. “Io sono molto contento di lavorare” mi ha confidato “con dei bravi dramaturg: dipende appunto dalla loro professionalità, però il fatto che esista una figura del genere mette al riparo dai disturbi che progetti molto innovativi di regia possono provocare, come distaccare certo pubblico dal piacere di frequentare l’opera”.

Questo è molto rilevante dal punto di vista impresariale, ma i teatri italiani non sono il più delle volte dotati di questa figura. L’unico che conosco è il teatro Donizetti di Bergamo e il suo Festival, dove Alberto Mattioli grande esperto d’Opera svolge esattamente questa funzione grazie anche alla lungimiranza e alla lucidità di Francesco Micheli, direttore artistico, che vede le regie innovative come fattore necessario, ma anche i loro impatti spesso pesanti sul pubblico tradizionalista dei melomani, che è sempre buona parte del pubblico dell’opera lirica.

Non mi dilungo sugli esiti musicali delle due rappresentazioni, dove l’esordio a Roma del direttore Spotti, non ancora trentenne, è stato vincente e così le voci, mentre il Filarmonico ha dimostrato la qualità nello stesso ruolo delle presenze femminili, con la ottima Gianna Fratta, dalla ricca esperienza, a raccogliere meritati e prolungati applausi, insieme a Vinogradov, grande Sarastro, e alla Siminska, virtuosa nel suggestivo personaggio della Regina della notte.

Print Friendly, PDF & Email