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Diritti umani

Il diritto a vivere in un ambiente sano: la recente risoluzione dell’ONU

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La 76a Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 29 luglio scorso, ha adottato una risoluzione sul diritto umano a un ambiente pulito, sano e sostenibile.

di Antonio Virgili – pres. comm. Cultura Lidu onlus

Con una ampia maggioranza di 161 voti a favore, solo otto astensioni[1] e senza voti contrari, la 76a Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 29 luglio scorso, ha adottato una risoluzione sul diritto umano a un ambiente pulito, sano e sostenibile.   La risoluzione afferma che “i cambiamenti climatici e il degrado ambientale sono alcune delle minacce più urgenti per il futuro dell’umanità” e invita gli Stati a “intensificare gli sforzi per garantire che la loro popolazione abbia accesso a un ambiente pulito, sano e sostenibile”.   La risoluzione riconosce che riscaldamento globale, cambiamento climatico, inquinamento di aria, acqua e terra “hanno implicazioni negative, sia dirette che indirette, per il godimento di tutti i diritti umani”.     

Il testo non è legalmente vincolante per i 193 Stati membri dell’ONU, ma i sostenitori sperano che abbia un effetto attivatore, spingendo i Paesi a sancire il diritto a un ambiente sano nelle costituzioni nazionali e nei trattati regionali e incoraggiando gli Stati ad attuare tali Leggi.     Il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha infatti dichiarato che il documento sarà uno strumento importante per la responsabilità e la giustizia climatica in quanto: “Il benessere delle persone in tutto il mondo e la sopravvivenza delle generazioni future dipendono dalla salute del nostro pianeta” e che “La risoluzione aiuterà a proteggere specialmente le persone più vulnerabili e solleciterà gli Stati a attivare obblighi sia in materia di tutela ambientale che per i diritti umani

Alcuni osservatori hanno sostenuto, rifacendosi ad una nota classificazione dei diritti umani in generazioni successive, che tale riconoscimento al diritto ad un ambiente pulito, sano e sostenibile rientri nei cosiddetti diritti umani di terza generazione i quali hanno confini alquanto vaghi e sono di fatto ancora poco tutelati in molti Paesi.  Per tale motivo, si è ridimensionata la portata di tale risoluzione considerandola solo un riconoscimento generico del principio che anche l’ambiente vada tutelato.  A fronte di tale lettura riduttiva, vanno considerati due aspetti: il primo è che la risoluzione segue quella dello scorso aprile quando il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, a Ginevra, ha dichiarato che l’accesso a un “ambiente pulito, sano e sostenibile” è un diritto umano universale.  

Tale dichiarazione, come in altri casi similari, è una delle tante che si stanno succedendo e che potrebbero portare ad iniziative più stringenti, accadde qualcosa di simile prima della Dichiarazione Universale di Diritti dell’Uomo (DUDU) del 1948, pure frutto di pluriennali iniziative e di lavori preparatori.  Il secondo aspetto, da non trascurare, è che un ambiente sano e pulito costituisce importante premessa alla tutela della salute individuale delle persone.  Esiste un evidente e noto legame tra molte patologie oggi diffuse (ad es.: problemi respiratori, allergie, alcuni tumori) e il degrado ambientale, la tutela ambientale quindi non ha solo un valore collettivo quale bene comune, ma incide -in alcuni casi grandemente- su specifiche patologie degli individui. In proposito l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), ricorda che l’inquinamento di aria ed acqua sono le più diffuse cause di malattia e di morte prematura nel mondo (si stima circa 7 milioni di persone ogni anno).    Non solo, la presenza di ambienti degradati o pericolosi presenti in vari territori determina limitazioni crescenti alla mobilità delle persone e può anche incidere sul loro diritto all’abitazione ed alla sicurezza.   Come in alcuni altri casi risulta perciò solo approssimativa la generica assegnazione solo alla terza generazione di diritti umani, generazioni che è forse utile ricordare qui brevemente.

  I diritti umani di prima generazione sono quelli di natura civile e politica (libertà individuale, di espressione, ad un giusto processo, di voto, ecc.); quelli di seconda generazione sono di natura economica, sociale e culturale (diritto al lavoro, all’abitazione, alle cure sanitarie, alla sicurezza sociale, ecc.); quelli di terza generazione, detti collettivi e ambientali, sono meno definiti (diritto allo sviluppo sociale ed economico, all’ambiente salubre, alle risorse naturali, alla sostenibilità, ecc.).  Tale articolazione non è condivisa da tutti, per vari motivi sia giuridici che economico-sociali, ed in effetti è per alcuni versi fuorviante, sia il ritenere che dalla prima alla terza generazione ci sia inevitabilmente una riduzione di importanza e di cogenza, sia il trascurare il testo della DUDU, che all’Art.3 recita: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.”, anticipando la seconda generazione.  

E’ evidente che vita e sicurezza poco si conciliano con caratteristiche ambientali che riducono la durata della prima (già avviene anche in Italia) e minano la seconda non solo da un punto di vista sanitario.  D’altra parte, storicamente, è chiaro che grazie alla prime dichiarazioni dei diritti umani sia stato possibile articolare gli stessi e progredire successivamente nel migliorare la qualità della vita.  Anche considerando solo quelle storicamente meno recenti, dopo la DUDU del 1948, giuridicamente non vincolante, sono seguiti degli strumenti giuridicamente vincolanti, quali: le Convenzioni sul genocidio del 1948; la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950; la Convenzione sui rifugiati del 1951; ed altre, che prevedevano meccanismi di controllo e garanzia.    

    Se si concorda che i Diritti Umani siano diritti inalienabili e fondamentali della persona, ne deriva che questi siano nati con la persona stessa, in quanto intrinseci alla sua stessa natura. Ma, ovviamente, il loro formale riconoscimento, e quindi la legislazione in materia, i vincoli e le tutele, nascono con l’evoluzione della civiltà moderna e grazie all’apporto materiale dei singoli Stati e dei loro legislatori.  Se invece si ritiene che i diritti umani siano solo concessioni limitate e variamente regolamentate di un potere religioso divino (come nell’Islam) o politico (come in varie dittature ancora oggi) si apre il varco ad ogni tipo di loro limitazione o soppressione e si possono “giustificare” la schiavitù come le discriminazioni di genere, la censura totale come la tortura. 

Come sempre, altre obiezioni non sono mancate, così è vero che spesso ai governi mancano le risorse necessarie per adempiere i doveri implicati o anche che non sia sempre individuabile chi abbia il dovere di intervenire (ma secondo logica chi inquina e produce il danno deve provvedere), altri temono interferenze nella libera economia di mercato, ammesso che essa sia del tutto libera.  

Ma, se ci si preoccupa di assicurare la libertà civile e politica a una persona, l’impegno non dovrebbe essere accompagnato da un ulteriore interesse per le condizioni di vita della persona, che le rendano possibile godere ed esercitare quella libertà?   In proposito, la Dichiarazione di Vienna e Programma d’azione (adottato il 25-06-1993) elaborata dalla Seconda Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani, all’art. 5 aveva chiarito che: “Tutti i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi. La comunità internazionale ha il dovere di trattare i diritti umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano di parità e valorizzandoli allo stesso modo.”    

La risoluzione dello scorso 29 luglio la si può dunque considerare un passo ulteriore ed importante di risposta agli ultimi cinquanta anni di azioni, studi, ricerche e proteste per richiamare l’attenzione anche sull’intreccio tra ambiente e diritti umani, un tema forse meno divisivo di altri in ambito internazionale.

[1] Si sono astenuti dal voto: Cina, Russia, Bielorussia, Cambogia, Iran, Siria, Kyrgyzstan ed Etiopia.

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