Attualità
I 70 anni della Radiotelevisione italiana e i 100 della radio
La Radiotelevisione italiana di Stato celebra i 70 anni delle trasmissioni televisive e i 100 anni di quelle radiofoniche. Nata nel 1924 con il nome di Unione Radiofonica Italiana, divenne Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) nel 1927, poi Radio Audizioni Italiane (RAI) nel 1944 e infine Rai − Radiotelevisione Italiana, nel 1954.
di Alexander Virgili
Nel 2024 ricorrono due importanti anniversari per la Rai dei quali certamente si parlerà più volte nell’arco dell’anno. La Radiotelevisione italiana di Stato celebra i 70 anni delle trasmissioni televisive e i 100 anni di quelle radiofoniche. Nata nel 1924 con il nome di Unione Radiofonica Italiana, divenne Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) nel 1927, poi Radio Audizioni Italiane (RAI) nel 1944 e infine Rai − Radiotelevisione Italiana, nel 1954. Dalla sua prima stazione trasmittente di San Filippo in Roma, prodotta dalla Marconi, il 6 ottobre del 1924, alle ore 21:00, Maria Luisa Boncompagni lesse il primo regolare annuncio della neonata radio. La stazione radiofonica di Roma sarà seguita l’8 dicembre 1925 da un’analoga installazione a Milano e il 14 novembre 1926 dalla stazione di Napoli. Non solo nasceva la radio in Italia, ma essa venne subito utilizzata dal regime che, cogliendone la grande potenza di diffusione popolare, cercò, pur con i limitati mezzi disponibili nell’Italia dell’epoca, di diffonderne la presenza capillarmente.
L’esordio ufficiale della televisione in Italia avvenne invece la mattina del 3 gennaio 1954, l’annunciatrice televisiva Fulvia Colombo diede avvio alle trasmissioni televisive regolari del Programma Nazionale (l’attuale Rai 1) con il seguente annuncio: «La Rai − Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive.» In realtà la fase sperimentale delle trasmissioni televisive era iniziata nel 1934, nel 1939 era terminata la fase sperimentale e iniziata la trasmissione, con regolare palinsesto dalle sedi di Milano, Torino e Roma, ma i tragici eventi del contesto storico politico e l’entrata in guerra dell’Italia fermarono le trasmissioni televisive, che sarebbero riprese con regolarità solo dopo vari anni, terminata la ricostruzione delle infrastrutture danneggiate durante la guerra e con il completamento della nuova rete nazionale di trasmettitori.
Si tratta di due momenti storici per l’Italia da un punto di vista tecnologico e mediatico ma anche fondamentali per il cambiamento sociale e culturale che ne è derivato. Certo senza la presenza di questi due potenti mezzi di comunicazione di massa l’Italia sarebbe oggi un Paese diverso, essi costituirono un collante profondo per una realtà sociale frammentata, povera, arretrata in vaste aree del Paese. La pietra miliare ed esempio positivo della promozione sociale televisiva fu la trasmissione “Non è mai troppo tardi” che, non è eccessivo dire, ebbe un importante ruolo sociale e educativo, contribuendo all’unificazione culturale della nazione tramite l’insegnamento della lingua italiana, abbassando il tasso di analfabetismo, particolarmente elevato nell’Italia degli anni ’60. Il progetto ebbe inoltre un grande successo internazionale, in quanto fu imitato da ben settantadue paesi. La trasmissione, promossa dalla Rai in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, ebbe inizio il 15 novembre 1960 e venne mandata in onda nella fascia preserale, anche per permettere a chi lavorava di potervi assistere. Costituì un validissimo esempio di quanto e come lo Stato possa intervenire con una propria azienda (la Rai) e con un Ministero che, giustamente e orgogliosamente, era denominato della Pubblica Istruzione, e non con le denominazioni fantasiose o ridicole successive, che hanno eliminato il “Pubblica”.
Ѐ giusto ricordare anche Alberto Manzi, l’insegnante elementare che fu l’artefice e conduttore di tutte le trasmissioni di quella serie, rendendo un grande servizio al Paese. Nel corso degli anni la Rai è poi diventata una delle principali aziende di telecomunicazioni e produzione in Europa nonostante, dal finire degli anni ’80, abbia dovuto modificare alcune strategie per resistere alla concorrenza aggressiva e priva di finalità sociali delle emittenti private, che si è manifestata sui contenuti (spesso accattivanti ma di basso livello), sulle frequenze (ad esempio le contese tra Rai e Mediaset per l’uso di alcune frequenze), sulla pubblicità pervasiva e invadente. La svolta pubblicitaria ha purtroppo condizionato il prodotto televisivo, in misura ancora maggiore di quanto è accaduto nella stampa scritta. Gli alti costi di produzione e la ricerca del profitto hanno infatti portato fatalmente le reti emittenti ad essere schiave della cosiddetta audience e perciò a seguire spesso gli interessi “meno nobili” del pubblico. Se nella stampa si è parlato di informazione “drogata” o “gridata”, nella televisione i cosiddetti programmi “spazzatura” finché attraggono spettatori funzionano e sono riproposti. Diversamente dalla lettura, la televisione privilegia i contenuti che non si rivolgono alla ragione ma ai sentimenti, che non suggeriscono riflessioni ma suscitano emozioni. Più ancora del prodotto giornalistico, il prodotto televisivo si presenta come una merce da vendere ad altra merce, cioè i telespettatori, venduti alla pubblicità un tanto a numero di televisori accesi.
Un mercato anomalo, quello della televisione, condizionato oramai non dai consumatori ma dai produttori di consumi. Ciò è anche, ma non solo, conseguenza del mezzo stesso, come il sociologo Marshall McLuhan aveva affermato, poiché le nostre strutture conoscitive vengono modificate non soltanto dai contenuti informativi, ma anche dalle tecniche con le quali l’informazione è trattata. Le tecniche di mediazione, cioè, non sono neutrali e le loro conseguenze a carico dell’individuo e della società non dipendono unicamente da chi le impiega, da che cosa mediano e perché. Diceva McLuhan: “Gli effetti della tecnologia non si effettuano a livello di opinioni e di concetti, ma alterano costantemente, e senza incontrare resistenza, le reazioni sensoriali e le forme di percezione”. Da qui la famosa espressione “il medium è il messaggio”, cioè il messaggio non è soltanto in quello che la macchina trasmette, ma è anche la macchina stessa e il suo uso. L’area intellettiva attivata dalle informazioni visive è più primitiva di quella del linguaggio e della parola, non presuppone necessariamente particolari condizioni di fruizione, tecniche o culturali; è per certi versi un’intelligenza psicologicamente infantile. Perciò l’immagine ha più forza della parola e riesce, più della parola, a coinvolgere chi la fruisce.
L’immagine televisiva riduce l’obbligo di dare agli eventi un significato strutturale. Davanti al televisore la maggior parte dei telespettatori non osserva attivamente, ma partecipa passivamente da un punto di vista razionale. Ne derivano, almeno in parte, tre dei fenomeni tipici del consumo televisivo: la nascita di una “telerealtà”, la spettacolarizzazione del reale, l’adozione dei sistemi della pubblicità nella rappresentazione della realtà. Quando, anni addietro, Andy Warhol disse che in futuro, grazie alle moderne tecnologie, tutti avrebbero potuto essere famosi per 15 minuti, prevedeva correttamente una delle spinte odierne al desiderio di esserci e di mostrarsi. Con la vita che diventa come un grande spettacolo e ogni suo aspetto sembra giusto che possa essere presentato come un intrattenimento – non importa se lieto, triste, volgare o insensato – coronato da un immancabile rozzo segnale di consenso e di gradimento: l’applauso. Oggi si applaude per tutto, al matrimonio come al funerale, il silenzio è stato bandito.
Quando nelle platee televisive appare un cartello “applausi” tutti sùbito applaudono con gusto, consapevoli di partecipare a un rito di cui è bene rispettare la liturgia; e se manca il pubblico, ci sono gli applausi registrati e fatti scrosciare al momento opportuno. Il servizio radiotelevisivo, anche in parte quello pubblico, è così progressivamente scivolato verso una privatizzazione di logiche, associato ad impoverimento culturale e a una spartizione degli incarichi e dei contenuti pseudo-istituzionale, ma fine a sé stessa. Anche in assenza di censura, c’è qualcosa di peggio: l’autocensura; e chi, anche all’interno, si appella alla coscienza professionale – e certo ci sono tali persone – trova difficile, nel contesto aziendale, l’esercizio delle elementari norme deontologiche che in altri Paesi sono tanto ovvie che neppure se ne parla. Per questi anniversari ci si può dunque augurare un parziale ritorno alle origini, cioè una rivalutazione della funzione pubblica della Rai, nell’interesse e nelle finalità sociali e per il miglioramento della società e della cultura italiane. La Rai ed i suoi archivi possono esprimere un potenziale enorme anche per la valorizzazione dell’immenso patrimonio artistico e culturale italiano, per il teatro, il cinema, la musica e le tante altre manifestazioni sociali e culturali. Con stile e sensibilità, con quel gusto bel bello che per secoli ha caratterizzato l’Italia. Altrimenti, ci sarà la ulteriore prova di quanto il Maestro Riccardo Muti ha affermato: “In Italia abbiamo perso la capacità di sentire il bello, quel bello che per secoli abbiamo dato al mondo.”