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Ambiente & Turismo

Una cucina povera diventata arte

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La tradizione gastronomica lucana insegna come la storia si possa raccontare anche con i sapori e i “cafoni”, gli antichi contadini, hanno imparato dalla “fame” a cucinare senza sprecare nulla.

di Nicola Lacerenza

 

I piatti della tradizione gastronomica lucana, descrivono, con le loro ricette, una società contadina, quella lucana, afflitta dalla cronica mancanza di cibo. Oggi, per fortuna, cibi e ingredienti non mancano, anzi. È proprio nel mezzo di questa abbondanza che si è perso l’unico “ingrediente” prezioso in tempi di “fame”. Il rispetto del cibo e il saper cucinare senza mai gettare via niente. Un modo antico di cucinare che è possibile ricordare attraverso alcune “novità” alimentari di oggi ampiamente pubblicizzate. «Il segreto dei cereali croccanti? E’ la farina ai cinque cereali.

Con la farina ai cinque cereali scoprirai un gusto completamente nuovo!».  «Con la farina integrale, il massimo della bontà incontra il benessere delle fibre!». Sono solo due dei numerosi spot pubblicitari della farina integrale. “Sana e ottima”, questa farina rappresenta un’alternativa alla tanto vituperata farina “0.0”, bianchissima, troppo lavorata e poco digeribile e che costa meno rispetto alla prima, considerata ormai quasi un prodotto di nicchia. Eppure non è sempre stato così in Basilicata. Fino a pochi anni fa la “farina bianca”, doppio zero, era la farina dei “signori”. La “farina scura”, oggi nota come integrale, era la farina di scarto, degna dei “cafoni” che lavoravano nelle terre dei signori. Per produrla i contadini lucani dovevano raccogliere dai capi di grano, già abbondantemente mietuti per i signori, le poche spighe rimaste che sarebbero spettate a loro.

Queste, con l’aggiunta di castagne e ghiande, raccolte nel bosco e le patate, avrebbero dato origine al “pane dei cafoni”, che è l’”antenato” della farina integrale. Un pane nero che non si buttava neppure quando era diventato leggermente ammuffito perché i morsi della fame lo rendevano masticabile e saporito. Il “pancotto” è una antica ricetta “povera” lucana. La preparazione di questo piatto consiste nel far lessare le verdure in acqua salata. Una volta cotta la verdura, bisogna immergere per un minuto il pane e poi scolare il tutto. pane e verdure non sono un granché come sapore, ed è per questo che si aggiungono dei “peperoni cruschi”, peperoni secchi soffritti, divenuti simbolo della cucina lucana. Ecco come mangiare e rendere appetitoso ciò che a prima vista non lo sembra. Ma non è tutto! Le stesse verdure da mettere sopra il pane cotto erano “verdure di recupero”. Significa che erano recuperate, appunto, dalla pulizia che i contadini effettuavano nei giardini dei loro signori.

I vari tipi di cardi o il finocchietto selvatico erano considerate “erbe infestanti”, perciò da buttare. L’impiego del finocchietto selvatico come condimento, in realtà, ha origini antichissime risalenti all’ epoca Romana e di cui si trova testimonianza nell’opera De Coquinaria” del cuoco Apicio, che lo suggeriva per il condimento della carne. Infatti per condire la salsiccia lucana, “luganica” appunto dal nome della Regione, si usa, oltre alla polvere di peperone e il cumino, anche il finocchietto selvatico. Un abbondante uso di spezie, certo, ma non certo per capriccio. Basta chiedersi come mai il prosciutto sia estraneo alla tradizione gastronomica lucana. Eppure, in Basilicata, i maiali non sono mai mancati. La risposta è semplice. Fino a pochi anni i contadini, una volta allevato il maiale, lo vendevano ai “signori” per garantire il sostentamento della famiglia e dopo la macellazione a loro restavano le frattaglie e gli scarti. Nell’epoca in cui non esistevano i frigoriferi, se già era difficile conservare le “parti nobili” del maiale, ancor più era la conservare gli scarti, ricchi di grasso e anche maleodoranti. La  “luganica” o “salsiccia”, ben speziata, era un altro modo per creare il gusto lì dove sembrava non esistere. Veri e propri miracoli in  cucina, dunque, compiuti non da chef stellati, ma da madri di famiglia che, nelle difficoltà, non dimenticavano mai il vero valore del cibo.

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