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Diritti umani

Lidu Onlus: dall’ONU intervento più deciso sullo sterminio dei Rohingya in Birmania

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La cessazione delle violenze auspicata dall’ on. Alfredo Arpaia richiama alla memoria mesi di spargimenti di sangue

di Vito Nicola Lacerenza

Il presidente della Lidu Onlus, l’On. Alfredo Arpaia, difronte al protrarsi di crimini contro l’umanità, chiede all’ONU azioni più risolute per restaurare il rispetto dei diritti fondamentali in Birmania. Teatro  di sterminio del popolo Rohingya, minoranza etnica musulmana stanziata nello Stato del Rakhine, a nord-ovest del Paese asiatico, dove la stragrande maggioranza della popolazione è buddista: in media 9 persone su 10. Una sproporzione numerica che ha facilitato l’esclusione dei musulmani di Birmania dalla società. In altre parole, per le autorità locali i  Rohingya non sono “cittadini della nazione” ma immigrati illegali. Trattata da abusiva nella sua stessa terra per anni, l’etnia islamica del  Rakhine si è vista negare diritti ritenuti “fondamentali” dalla comunità internazionale: il diritto alla salute, allo studio, alla dignità e, dopo il 25 agosto dell’anno scorso, alla vita. In quella data un gruppo armato, l’ARSA (L’esercito per la salvezza dei  Rohingya), ha assaltato alcune stazioni di polizia uccidendo diversi agenti.

Un vero e proprio attacco  dei musulmani birmani allo Stato (buddista), da cui è scaturito un massiccio intervento da parte delle truppe regolari che ha seminato morte tra i Rohingya. Più di seimilasettecento di loro sono stati uccisi nel 2017, secondo un rapporto presentato delle Nazioni Unite, mentre circa 650.000 sono fuggiti verso il vicino Stato del Bangladesh, che ha rifiutato di accoglierli. Cifre da pulizia etnica, specie se si considera che i musulmani del  Rakhine erano, almeno fino a prima che iniziasse il conflitto armato, appena un milione. Coloro che riescono a raggiungere il confine col  Bangladesh trovano rifugio in campi profughi dove, tra la scarsità di cibo e l’assenza di acqua potabile, domina l’indigenza e la miseria più nera. Ma a rendere ancora più terribili le condizioni proibitive in cui versano bambin,i donne, anziani e uomini  Rohingya è il ricordo dei corpi senza vita dei loro cari, caduti sotto i colpi dei soldati. «Sparavano ovunque lasciando a terra molti morti- ha raccontato una ragazza Rohingya, accolta in un campo profughi al confine col Bangladesh- un militare ha visto mio padre  e gli ha sparato alla testa, il suo cervello mi è schizzato addosso e mi è scivolato lungo la spalla. Non ho potuto neanche avvicinarmi a lui perché i  militari l’avevano accerchiato. Lui mi diceva sempre: “non ti lascerò mai indietro. Se succede qualcosa, moriremo insieme”.

 

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