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Immigrati sudamericani espulsi dagli USA alla ricerca di un futuro nei paesi d’origine

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Tempo di lettura: 2 minuti

Espulsi dagli Usa e assunti da call center di multinazionali americane nei paesi d’origine provano a ricominciare una nuova vita

di Vito Nicola Lacerenza

Una conoscenza eccellente della lingua inglese e sufficientemente buona dello spagnolo, una disponibilità lavorativa di almeno sei mesi con orari flessibili sono  requisiti indispensabili per lavorare in un call center, in America latina. Zona in cui le aziende statunitensi assumono manodopera a basso costo, compresi i centralinisti. Ecco perché le migliaia di immigrati sudamericani, espulsi ogni settimana dagli USA, sembrano fatti apposta per tale compito.

“I deportati”  sono andati a vivere nella nazione nordamericana quando erano bambini, insieme alle loro famiglie. Lo spagnolo lo parlano a fatica, perché sono madrelingua inglese. La stragrande maggioranza di loro si considera cittadino americano, non si sentono affatto immigrati. Alcuni non sospettano neanche di esserlo, finché non vengono deportati. «Ho 18 anni, non avrei mai immaginato di essere rispedito a El Salvador- ha detto Dilan, salvadoregno, espulso dagli USA- ho abbandonato il mio Paese quando avevo 5 anni e non ne ho alcun ricordo. Negli Stati Uniti ho lasciato mia madre e una fidanzata incinta di mia figlia. Tutta la mia vita. Quando sono arrivato a El Salvador non sapevo cosa fare». Finché, Dilan, non è stato assunto da una delle 450 agenzie di call center sparse nel Sud America, di cui 9 solo a El Salvador, dove 25 mila persone sono occupate nei call center come centraliniste, con uno stipendio che varia da 500 a 650 euro al mese.

Una cifra considerevole nel Paese latino, che consente di acquistare un’automobile o sognare di ritornare, un giorno, negli Stati Uniti. «Io mi sento americano – ha spiegato Dilan, salvadoregno emigrato con la famiglia negli USA quand’era in fasce e oggi rimpatriato a El Salvador – è  triste sapere di non poter essere vicino a mia figlia quando nascerà, per poterla stringere tra le braccia e baciarla. Non voglio restare qui, voglio ritornare negli USA. Mia figlia ha bisogno di me».

 

 

 

 

 

 

 

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