Diritti umani
Gli invisibili

Un “focus” sul mondo silente della disabilità
di Alessia Ottomanelli*
Quando ero adolescente, nel pieno della scoperta del mio mondo interiore e del raffronto di quanto risuonasse con l’esterno, non ho mai immaginato me stessa come madre e, in particolare, come mamma di un figlio autistico grave.
La mia spensieratezza di quei giorni, per un lungo periodo, ha lasciato il passo ad una nube di pensieri inconciliabili, quando ho cominciato a dovermi relazionare con quest’Idra dalle mille teste che l’Autismo sembra essere.
Ciò che mi ha stupito e sufficientemente sconvolto è aver compreso che, sebbene tutti si ammantino la bocca millantando la conoscenza dell’Autismo come Spettro, ossia come una patologia che ha un “range” di manifestazione che si estende su un segmento che va dall’alto funzionamento (i “Rain men, i Geni, i Doctor House, così come vengono rappresentati dai media), al basso funzionamento con forte ritardo cognitivo, non autosufficienza e invalidità al 100%.
Ma pochi sanno davvero cosa in realtà significhi. L’autismo è un mondo che nessuno vuole indicare, frequentare o nemmeno immaginare, lasciando così milioni di famiglie nel silenzio e nell’abbandono che derivano dalla volontà di NON guardare.
Anche l’autismo a basso funzionamento è una malattia di cui nessuno vuole parlare. Ricordo ogni video fatto dal Sindaco della mia città, nei centri dedicati, circondato magicamente da ragazzi ad alto funzionamento, proprio perché gli altri, i fratelli incompresi, non sarebbero stati capaci di stare fermi sorridenti attorno al Sindaco a fare una foto, semplicemente perché non capendo cosa stesse succedendo ed entrando in frustrazione, non potendo parlare per esprimere quella stessa frustrazione, si sarebbero gettati a terra dimenandosi e urlando. Questo non lo si vuole trasmettere attraverso i media: l’apparenza va salvaguardata, il Sindaco non può tentare di interagire con questi bambini, non è possibile, non deve nemmeno guardarli. Lasciamoli dentro e che facciano silenzio mentre giriamo il video e scattano le foto.
La mancata informazione circa la forma di autismo non verbale, con forte ritardo cognitivo, mancato controllo delle funzioni corporee, che è quella che vivono migliaia di famiglie italiane nella loro quotidianità, con crisi di aggressività (i cosiddetti “meltdown”) e atteggiamenti auto ed etero aggressivi in presenza di frustrazione, per mancata responsività di chi si prende cura di queste persone: questa è la condanna peggiore che lo Stato impone su disabili non compresi.
Perché il paradosso della discriminazione nella discriminazione è che questi disabili non sono come gli altri: non sono su una sedia a rotelle, non sono immediatamente individuabili, in una società che ha perso la capacità dell’osservazione attenta e del silenzio e quindi ci si ritrova, con ragazzi che hanno “meltdown” per strada e passanti che accusano i genitori di essere degli incapaci nell’educazione dei figli, o altri che chiamano i carabinieri solo perché passando di sfuggita tra la spesa e la manicure sono infastiditi da un genitore che, fradicio di sudore, cerca di sollevare il proprio figlio di 60 chili dall’asfalto dove, per disperazione e protesta, sta violentemente e volutamente sbattendo la testa ignaro dei danni che questo causa.
Ecco la realtà di migliaia di famiglie, quella che non viene trasmessa in TV, né descritta sui giornali, né oggetto di analisi persino nelle giornate dedicate “all’autismo”.
Coloro che ne sono a conoscenza sono la cerchia ristretta delle persone che afferiscono alla famiglia, quelle che dopo tanti anni ancora chiamano per sapere come va e durante le telefonate cercano di comprendere cosa l’interlocutore voglia dire tra le urla in sottofondo. A volte guardo coloro che si pongono come obbiettivo il non dormire per tre mesi e sorrido: sono ormai 12 anni che non si dorme più una notte intera e si continua a portare avanti la vita cercando di non far pesare alla società intorno la stanchezza. Si, perché i genitori che vivono questa realtà, passano notti insonni e poi sono i primi ad arrivare al lavoro, a dispensare sorrisi a coloro che sono preoccupati perché non possono uscire a cena, o si disperano per problematiche che loro stessi scambierebbero all’istante per una sola settimana di tregua. Ma sono anche quegli stessi genitori che sanno vedere nei loro figli così differenti dal resto del mondo una perfezione che nessuno sa trovare, quelli che sanno combattere la battaglia dell’osservare il dettaglio e l’impegno piuttosto che criticare per i mancati risultati ottenuti.
Perché tutto quello che per un genitore con figli normodotati è scontato, per noi non lo è.
Se mio figlio imparasse a mettersi un calzino, o a mangiare da solo (ha 14 anni non 3) piangerei di gioia per ore. Ma lui fa i suoi progressi in un tempo più rarefatto e sono sottili e visibili solo agli occhi di coloro che hanno conservato la capacità di amare incondizionatamente.
Perché amare vuol dire non dare per scontato mai. Probabilmente per questo ritengo i genitori di questi ragazzi differenti anche loro in termini di qualità umane.
Un tempo, ragazzi come i nostri sarebbero stati gettati dalla rupe Tarpea, oggi non è poi così diverso, lì dove la rupe Tarpea diventa il taglio costante dei fondi per persone totalmente invalide, non autosufficienti e che hanno la necessità per la loro stessa incolumità di un’assistenza 24h su 24.
Li si getterebbe dalla rupe, dimenticandosi che esistono e dimenticandosi le difficoltà di chi se ne occupa, perché non ci si ferma ad ascoltare, ad osservare, soprattutto perché non sono e non saranno mai produttivi, mai inquadrati in quel sistema oppressivo di controllo che è il posto fisso, il lavoro, l’essere socialmente parte di una catena. Sono anarchici per natura, per nascita, dunque perché mai un’Istituzione governativa dovrebbe sostanziare la loro anarchia, la loro incapacità di sottostare a regole, di ripetere azioni all’infinito che non siano lo sfarfallio delle mani o l’applauso quando sono felici, ma che sia piuttosto il mettere timbri per otto ore in un ufficio. A volte mi sono domandata se siano loro davvero i disabili, quelli non capaci e se non siamo noi quelli che della meraviglia del nascere in questo mondo, poco abbiamo compreso.
Specie in questi giorni di orrore dove esseri umani, vengono definiti animali e uccisi sotto gli occhi di tutti, perché apparentemente i loro diritti sono differenti da quelli del resto dell’umanità. Ecco perché noi sentiamo maggiormente questa guerra: perché è la guerra di un popolo a cui è stato progressivamente tolto tutto, un popolo bistrattato e ghettizzato, che è la stessa cosa che la società vorrebbe per i nostri figli. Chiuderli in istituti residenziali, imbottirli di medicine e buttare la chiave, vorrebbe che le stesse famiglie se ne dimenticassero. Molte infatti cedono e lo fanno. Ricordo ancora il giorno in cui provando a inserire mio figlio in un centro sanitario sostitutivo alla scuola, mi ritrovo con il mio bel 14 enne in un salone con 60 enni sulla sedia a rotelle e tralasciando la reazione del mio piccolo, impaurito dal concetto “mamma mi deve lasciare” qui, mi sento dire da una delle assistenti che molti di quegli uomini e donne erano stati abbandonati al centro da piccoli, mandati col pulmino il primo giorno di inserimento e poi mai più ripresi, genitori scomparsi, spento telefono, mai più tornati. Ella aggiungeva con stupore: “ non siamo abituati a genitori che si prendono cura di questi bambini, molti vogliono solo parcheggiarli”: parole che non scorderò mai.
Sono stati lasciati li da piccoli, senza valigia, senza vestiti, senza amore, cresciuti senza una carezza. Rammento una donna di circa 50 anni sulla sedia a rotelle, che mi si è avvicinata chiedendomi: “puoi farmi una carezza?” Sono scoppiata a piangere e l’ho sognata per molte notti di seguito . Molte famiglie cedono e non sono capaci di dichiarare il malessere, di chiedere aiuto, queste le tragiche conseguenze sulla pelle di persone che vengono abbandonate, esattamente come tanti poveri animali per strada d’estate. Condannati a morte.
Al centro della mia testa i capelli sono rimasti più radi, perché ogni volta che mio figlio deve prendere il pulmino del centro che ha finalmente accettato di accoglierlo dopo le violenze subite nella scuola pubblica, poiché soffre di mal d’auto, si ribella attaccandosi con tutto il suo peso ai miei capelli mentre si butta per terra. Fare in modo che molli la presa dura qualche minuto. Minuti che ai passanti sembrano scene da un film di fantascienza non ancora girato. Per me, scuola di pazienza, lezione per ingoiare le lacrime e ricompormi sorridendo a tutti quelli che mi circondano, perché il mio dolore non passi a loro.
Perché la cura ha una qualità: parte sempre e solo da chi ha sofferto e si dirige verso l’altro. Se incontra qualcuno che risuona con un dolore silenzioso, ti ritorna in uno sguardo ed un sorriso che ha il sapore di un abbraccio silenzioso e che fa la differenza, ogni giorno. Spesso, nella maggior parte dei casi, cade per terra come qualcosa che sfugge da un balcone e viene lasciato li e calpestato dagli ignari passanti, come il cuore di un genitore che vive queste realtà nella società disumana e arida dove viviamo.
* Brevi note sull’autrice Alessia Ottomanelli. Laureata in Scienze della Comunicazione all’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano, succesivo Master in Filosofia della Mente presso la Oxford University for Continuing education. Mamma di due figli, il più piccolo, affetto da grave autismo. Insegnante e consulente, vive e lavora a Bari. Da sempre impegnata a sostegno dei diritti delle minoranze, contro ogni forma di violenza, discriminazione e bullismo.