Diritti umani
Tribù indiane ‘sul piede di guerra’: protestano perché sfrattati dalle loro terre in nome della conservazione delle tigri e… dell’estrazione di uranio
A sostegno delle tribù il “Survival international” movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni.
di Luca Rinaldi
Quando si parla di indiani sul piede di guerra, l’immaginario comune pensa subito a Toro Seduto e ai segni dipinti sul volto di nativi americani dai copricapi piumati. La mente vola poi al pensiero dei loro discendenti costretti a vivere in riserve del Colorado a gestire casinò per turisti.
Ebbene una volta tanto a disseppellire l’ascia di guerra sono gli indiani veri. Tribù che vivono sì in riserve, ma in riserve naturali nel cuore dell’India, corridoi faunistici creati per la sopravvivenza delle tigri, animali seriamente a rischio di estinzione.
Ed è proprio questa convivenza tra le due specie, umana e animale, che, sin dagli anni ’60, sta creando grossi problemi a Chenchu, Baiga, Mising, Soliga, Gond, tribù ancestrali che vivono ancora dei frutti della foresta e la proteggono da tempo immemorabile, considerandola come una madre e i suoi animali come parenti e divinità.
I problemi in queste zone però non derivano dalla presenza delle tigri in quanto pericolose bestie feroci, tutt’altro. La convivenza tra indigeni e tigri è ottima. La minaccia per queste tribù arriva dall’uomo, che nella veste del Dipartimento delle Foreste e in nome della conservazione delle tigri, sta letteralmente sfrattando dalle loro terre, anche con la forza, le tribù stanziate in varie riserve presenti negli stati di Andhra Pradesh, Telangana, Karntaka e Odisha nell’India centrale.
Nonostante la legge sia dalla parte degli Adivasi (i popoli tribali) e protegga specificatamente il loro diritto a restare nelle terre ancestrali, decretando che qualsiasi reinsediamento di popoli indigeni debba essere volontario e seguito da un risarcimento, questa viene puntualmente disattesa. A riprova di ciò ci sono le molte accuse di razzismo, minacce, intimidazioni e violenze, formulate dai tribali nei confronti dei funzionari statali e dei guardaparco che li vogliono sfrattare.
Anche i precedenti purtroppo non danno alcuna garanzia. Parte della popolazione Baiga già nel 2013 è stata sfrattata dalla riserva delle tigri di Similipal, ritrovandosi a vivere ben presto abbandonata a se stessa sotto teloni di plastica, in condizioni di miseria. Stessa sorte, l’anno successivo, nella vicina riserva delle tigri di Kahna dove, a seguito dello sfratto, gli indigeni non hanno ricevuto in cambio né terra, né case, né alcun tipo di assistenza.
Le autorità indiane si difendono spiegando che i Baiga avrebbero dovuto individuare nuove terre da acquistare con i soldi dei risarcimenti previsti, senza valutare il fatto che per chi ha vissuto nella foresta per millenni, questo è un concetto estraneo alla propria cultura. Gli indigeni sostengono che la foresta e le tribù non potrebbero sopravvivere l’una senza le altre, perché allontanando i protettori millenari della foresta, non si annientano solo i loro stili di vita e le conoscenze accumulate nei secoli, ma si arriverebbe in definitiva a danneggiare la foresta stessa, che finirebbe per scomparire, così come i suoi abitanti.
La vicenda ovviamente non è priva di clamorosi paradossi e ipocrisie, determinati più da intenti speculativi da parte delle autorità piuttosto che da velleità di tutela delle tigri.
In primo luogo l’accusa mossa dal governo agli Adivasi, di danneggiamento della fauna, non regge. C’è una sola riserva dove è stato riconosciuto agli indigeni il diritto a restare, e proprio lì si è assistito, nel tempo, ad un aumento dei numeri di felini. Secondariamente c’è da notare che in alcune riserve sono state costruite dal governo indiano strade per consentire l’ingresso alle rumorose jeep di migliaia di turisti che accorrono per fotografare proprio le tigri che si suppone debbano essere tutelate.
Ad aggiungere un’ulteriore nota di sospetto sulle vere intenzioni dell’autorità indiana, c’è anche il fatto che nella riserva di Amrabad, in cui si vuole procedere allo sfratto di circa 64.000 Chenchu con il pretesto della conservazione delle 65 tigri censite, il governo ha parallelamente approvato anche progetti di esplorazione delle miniere d’uranio presenti nella zona, attività che produrrebbero danni ben più devastanti per l’ecosistema rispetto all’attuale presenza degli indigeni, da sempre rispettosi della natura e che, per cultura, non prendono dalla foresta nulla più dello stretto necessario per vivere.
È per questo che centinaia di uomini e donne Baiga pochi giorni fa, il 17 e il 19 marzo, sono “scesi sul piede di guerra” manifestando contro due prossimi sfratti annunciati ai loro danni, ennesime estorsioni ingiustificate messe in atto dalle autorità indiane, le quali hanno trovato un insperato appoggio persino dal WWF, il Fondo Mondiale per la Natura, sostenitore in questo frangente dei diritti delle tigri.
Dalla parte delle tribù si è schierato invece Survival International, movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, che nel novembre del 2017 ha chiesto il boicottaggio del turismo nelle riserve delle tigri in India fino a che non saranno rispettati i diritti di questi popoli.