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Diritti umani

La violenza strumento ordinario di guerra

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Le violenze di guerra sui civili sono spesso messe a tacere dai vincitori, ma poi riemergono attraverso tracce inaspettate, documenti, fotografie, scheletri interrati. 

di Antonio Virgili- pres. comm.Cultura Lidu onlus

Il 27 luglio scorso, l’Alta Corte Regionale di Amburgo ha emesso una condanna a cinque anni e sei mesi a carico di una donna tedesca membro dell’ISIS per favoreggiamento al genocidio della popolazione Yazida, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra per concorso e favoreggiamento alla riduzione in schiavitù, allo stupro ed alle violenze contro una giovane donna yazida nel 2017.    La sentenza è importante per diversi aspetti: il primo è la conferma che alcuni gravi crimini andrebbero comunque sanzionati, anche a distanza di tempo e di luogo; il secondo è il riconoscimento indiretto che la popolazione Yazida è stata soggetta a genocidio da parte di militanti islamici e che moltissime donne e ragazze sono ancora prigioniere, sostanzialmente schiave sessuali;  il terzo è che l’odio etnico e quello contro gli “infedeli” non costituiscono elementi riduttivi che affievoliscono il reato (la donna imputata ha confermato in aula, durante il processo, che gli Yazidi sono solo “sporchi infedeli”);  in parte collegabile al punto precedente, si è poi affermato che anche in caso di indottrinamento religioso e ideologico il colpevole è comunque in grado di realizzare decisioni, ovvero capace di intendere e di volere, quindi sanzionabile;  infine, elemento antropologicamente significativo, anche delle donne possono essere condannate per concorso in abusi e violenze sessuali contro altre donne, nonostante una certa retorica sembri escluderlo.     

In Germania questa è la sesta persona condannata (altre quattro donne ed un uomo), in altrettanti processi, per crimini dello stesso tipo contro donne yazide, un risultato di grande rilievo per quanti difendono i diritti umani e cercano di combattere la violenza sessuale.  Va detto che ciò è stato possibile anche grazie alla grande tenacia e concretezza di Nadia Murad, la giovane donna yazida, essa stessa resa schiava, violentata e torturata prima di riuscire a fuggire, poi Nobel per la Pace nel 2018.  Un luminoso esempio di coraggio e rigore contro queste forme di violenza, portato avanti senza piegarsi a fatui discrimini religiosi (verso l’Islam, che spesso si ritiene preferibile non citare, così come si era ritenuto opportuno “coprire” le opere d’arte italiane per non urtare la suscettibilità moralistica islamica, come se i musulmani fossero tutti scioccamente permalosi e fanatici), culturali (quelli sessuali sono crimini a tutti gli effetti, da chiunque commessi, in qualsiasi contesto etnico o religioso, inutile appellarsi ai testi sacri o alla prassi religiosa) e di genere (si evidenzia la diffusa acquiescenza, quanto meno favoreggiatrice, di molte donne musulmane verso tali eventi, se ciò viene taciuto non si rende merito alle poche donne musulmane attiviste dei diritti umani). 

Questi aspetti dovrebbero indurre alla riflessione ed al superamento di alcuni luoghi comuni, passivamente accolti e meccanicamente ripetuti, cercando di superare sia la logica dei pregiudizi reciproci e delle semplificazioni (Crociati contro l’Islam, donne contro uomini) che quella dell’accettazione acritica dei costumi altrui che vanno esecrati e limitati quando non rispettano i diritti fondamentali.

  In agosto è l’ottavo anniversario del feroce attacco dell’ISIS contro la comunità degli Yazidi,  unitamente al processo citato ciò offre lo spunto per ricordare quanto i diritti di tale comunità siano tuttora trascurati a livello internazionale, nonostante che, secondo dati attendibili, tuttora oltre 3000 tra donne e bambini Yazidi risultino dispersi perché rapiti e resi schiavi, alcune di tali persone purtroppo potrebbero essersi suicidate (caso relativamente frequente in tali situazioni estreme), altre sono in stato di forte sofferenza.    

Il problema delle minoranze etniche perseguitate, non solo gli Yazidi in Iraq ma anche gli Hazara in Afganistan o i Tibetani in Cina, per citare alcuni dei tanti casi di emarginazione etnica, appare irrisolto e spesso neppure affrontato nei dibattiti. Le forti droghe del potere e della violenza non sembrano essere messe minimante in discussione neppure da quelle comunità ideologiche o religiose pronte ad autoproclamare di essere “portatrici di pace e fratellanza” ma “perseguitate e sfruttate dal mondo occidentale”, che non risulta però pratichino al loro interno il rispetto dei diritti delle minoranze e delle donne.

   In positivo, il tema delle violenze sessuali è stato negli anni portato sempre più all’attenzione pubblica da numerose importanti iniziative per migliorare la condizione femminile nel mondo, di talune iniziative le Nazioni Unite sono state parte attiva.  Da notare però che, sebbene lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale indichi, agli articoli 7 e 8, che le violenze sessuali sono gravi reati contro la persona, lo “spirito dei tempi” e forse alcune campagne di opinione, hanno spesso fatto restringere il tema solo a donne e bambine, ancorandolo al “patriarcato” e al “maschilismo” (come si legge in alcuni documenti) deformandone e riducendone così parzialmente il senso.  Tanto è vero che, con la Risoluzione ONU 2467 del 2019, si ribadisce più esplicitamente che la violenza sessuale è un crimine non solo quando perpetrata contro le donne ma anche quando le vittime sono i bambini e gli uomini, sottolineando qualcosa che avrebbe dovuto essere ovvio, senza riferimenti al genere o ad altre categorie discriminanti (come quelle religiose).   

Secondo alcuni osservatori, un motivo che ha portato a trascurare le violenze contro i bambini e gli uomini è il fatto che esse siano state quasi sempre classificate come torture e non come violenze sessuali, procedura quasi opposta a quella invece seguita quando la vittima è una donna.          

Quella contro le donne è stata più volte indicata come una tattica brutale di guerra, la Risoluzione dell’ONU n. 1830 del 2008 chiede che gli autori vengano perseguiti penalmente e viene pure richiesta la creazione di meccanismi volti alla prevenzione del crimine di violenza sessuale e alla protezione delle donne e delle ragazze nelle zone di conflitto.    

Ci si muove, quindi, su più fronti, ma è chiaro che combattere la violenza sessuale nei teatri bellici è estremamente difficile, del resto non ci si è ancora riusciti neppure in contesti non bellici, che pure sarebbero molto più controllabili.  Nei contesti bellici talora queste violenze sono sistematicamente perpetrate secondo una strategia programmata contro i nemici (in genere, le donne dei nemici), talaltra sono frutto di intenti distruttivi e odio fine a se stessi, fuori controllo, o effetto di alcol o sostanze assunte, di frustrazioni e distorsioni mentali dei combattenti, di vendette, di sfogo di rabbia e paura, o anche, come ammesso da un giovane militare dell’esercito del Congo, interrogato su tali azioni: “I didn’t rape because I am angry, but because it gave us a lot of pleasure”[1] (non ho stuprato per rabbia, ma perché ci dava molto piacere).  

L’impressione è che forse si dovrebbe mettere a punto un approccio meno fumosamente ideologico e ancora più operativo, che cerchi di disinnescare progressivamente tutti i fattori che possono alimentare, giustificare, riclassificare, attivare tali reati, inserendoli progressivamente nelle legislazioni militari e di pace dei vari Paesi e, forse principalmente, evitare che si pensi che terminato un conflitto, un disastro, o qualsiasi altro evento non ordinario, tali reati saranno dimenticati e non più perseguiti.  Il contesto bellico è purtroppo di per sé violento, la storia ce lo ricorda, così come quello criminale organizzato (la brutalità dei Narcos in Messico è tristemente nota).  Immaginare una guerra senza violenza è per certi versi poco realistico, i due termini sono fusi tra loro, sono del passato le guerre realizzate quasi solo con scontri tra militari localizzati sui campi di battaglia, quando si coinvolgono la popolazione civile e vasti territori il contesto è spesso tale da allentare o far saltare totalmente freni, limiti e dignità umana.  

Le violenze di guerra sui civili sono spesso messe a tacere dai vincitori o comunque dai gruppi maggioritari, ma poi riemergono, lugubramente, come accaduto in tante parti del mondo, anche a distanza di anni, attraverso tracce inaspettate, documenti, fotografie, scheletri interrati.  Le donne e i bambini cinesi di Nanchino, nella guerra sino-giapponese; le stragi di Armeni; ma anche le antiche incursioni turche e barbaresche lungo le coste del Mediterraneo a caccia di donne e bambini da rapire; e tanti altri eventi, lungo il corso della storia, in giro per il mondo, senza eccezioni di cultura, etnia o religione, lo testimoniano inequivocabilmente. 

[1] Tratto da un Report della Columbia University che indagava sul caso delle migliaia di stupri registrati in Congo

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