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Diritti umani

La gabbia dell’orco

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Tempo di lettura: 4 minuti

Dedicato alle donne vittime di violenza domestica ai tempi del Covid 19

di Anna Maria Antoniazza

Nella mia solitudine penso e ripenso a chi non è solo ma è mal accompagnato.

Alle tante troppe donne che la quarantena ha costretto alla convivenza con i mostri della loro quotidianità. Uomini violenti, violenti con le parole e con le mani, che incidono nel tempo della vita una ferita simile ad un baratro. Ed è in quel baratro che una donna crolla inesorabilmente, con i suoi ricordi, la sua sensibilità. Un vaso fragile messo sull’angolo e pronto a cadere. Battute fuori luogo, brutte parole, mani che si alzano senza pietà.

Gestire la psicologia di questi uomini e sfuggire alla morte è una impresa da eroina: presuppone prima di tutto la possibilità di una indipendenza economica e in secondo luogo un coraggio enorme a parlare, a chiedere aiuto perché si ha paura delle ritorsioni e del giudizio sociale.

Marina ha 32 anni, due figli, donna delle pulizie, marito operaio, un “orco” secondo la dicitura comune. Una presenza domestica assente, che non aiuta, che non supporta, che lascia sia lei a fare sempre tutto e a prendere qualsiasi decisione, per poi giudicare con facilità, arrabbiarsi e sfogarsi senza sosta.

Giulia ha 45 anni, tre figli, da sempre casalinga e vittima del despotismo economico del marito, che si considera Dio e Salvatore della famiglia, che lui “mantiene” come se lei, con tre figli a carico, non facesse nulla dalla mattina alla sera. La gestione della casa, seguire i figli tra scuola, sport e amici non è una impresa facile e neanche dargli una educazione consona a fronte di una figura paterna che si limita ad elargire soldi ma nessun affetto.

Teresa ha 60 anni, un marito che l’ha tradita da sempre, uno di quelli abituati a frequentare le strade a luci rosse della Capitale, a pagare poco per concludere in fretta. Un uomo violento da 30 anni. Lei piccolina di statura, quasi inerme, una voce sottile: sa solo di aver trascorso una vita infelice vicino a chi non l’ha mai amata, vittima di quegli amori facili dell’adolescenza che per abitudine non osi abbandonare in età adulta.

Marina, Giulia e Teresa non abitano su Marte e non sono neanche protagoniste di una fiction TV: sono le donne che vediamo in coda con noi a distanza di un metro con la mascherina addosso, i guanti sulle mani consumate. Sono con noi, tra di noi. Nascoste come fantasmi silenziosi, educatissime, premurose, che conservano il dolore di una dimensione domestica disperata. Anziché urlare praticano un silenzio permanente per evitare di gridare. Sanno tutte e tre che in tempi come questi l’unica salvezza, l’unico momento di ritiro spirituale sono le poche occasioni per uscire dalla gabbia dell’orco. Non esistono altri momenti.

Chi più di loro vive una limitazione non tanto della libertà di movimento ma di sollevamento emotivo. Durante la vita di tutti i giorni, tra il lavoro e gli impegni della quotidianità, esistono mille modi per non stare in casa e limitare al minimo il contatto con il proprio carnefice.

Ma ora no: le case diventano prigioni di sofferenza in cui sporcarsi di cattiveria ogni singolo minuto della giornata. Una convivenza continua, dove i nervi saltano con estrema facilità e non c’è più neanche il rimedio di andarsene o di scappare a casa di una amica o di un parente per prendere respiro.

E la loro vita va avanti, tra colazioni, pranzi e cene, tempo che non passa, noia che si gonfia fino a scoppiare in atti di violenza domestica che rimarranno sconosciuti ai più e che nessuno probabilmente si sforzerà di capire.

Spesso quando ne parlano alle amiche “felici”, quelli che non vivono situazioni simili, vengono addirittura giudicate come esagerate, come se i loro racconti fossero frutto di una schizofrenia domestica, legata alla mancanza di interessi, alla volontà di reagire, all’assenza di carattere. Ed è in questo momento che esplode la condanna definitiva delle vittime: inascoltate e giudicate con semplicismo da chi le guarda solo come mogli polemiche ed esagerate. “Non posso credere che tuo marito ti faccia vivere tutto questo”, “ma tu figurati se a casa ti fa subire un incubo del genere” si sentono rispondere. E intanto si nascondono in bagno a piangere per non farsi vedere dai figli, per non dare soddisfazione all’orco perché le lacrime – in situazioni come queste – diventano qualcosa di cui vergognarsi e vanno conservate come un segreto che non merita di essere esposto.

La sofferenza ha tanti volti ma possiede prima di tutto il volto del silenzio e la capacità di nascondersi per non farsi vedere. Perché farsi vedere felici o fingere di esserlo non ha prezzo ma nascondere la sofferenza e sembrare come tutti, senza sapore, ha il costo pesantissimo di ingoiare litri di veleno che prima o poi finiscono per ucciderti.

Ed è anche questa una forma di morire.

Anna Maria Antoniazza, classe 1980, prima laurea in Economia, seconda Laurea in legge (Università Cattolica di Milano) lavora come avvocato nel mondo dell’informatica, dedicandosi in particolare alla robotica e all’intelligenza artificiale.

Dal 2018 ad oggi si è distinta per aver riformulato il ruolo della transessuale nelle multinazionali e nelle grandi aziende italiane affermando il concetto che una donna transessuale può essere non solo una persona come tutte ma una persona di successo perfettamente integrata nella società. Particolarmente rilevante la sua presenza sulla carta stampata (Repubblica e Io Donna) e canali web (tlon, dailycases) e i suoi interventi in contesti istituzionali sulle tematiche legate all’ identità di genere (Università Bocconi di Milano, Microsoft House, Simmons&Simmons, Moodys, Ordine degli Avvocati).

Poetessa e disegnatrice per passione nel tempo libero. Quando era un ragazzo, ha pubblicato diversi libretti di poesie raccolti poi in una piccola antologica curata da Plinio Perilli dal titolo “Il mio bambino nevica tra gli angeli – Mi niño nieva entre los ángeles” (2009) con interventi di critica letteraria da parte di Renzo Paris, Elisa Da Voglio e Antonio Veneziani.

Il disegno dell’articolo è della stessa Anna Maria Antoniazza

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