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Attualità

Dante e la solitudine dei nostri tempi

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L’uomo contemporaneo, figlio ed espressione delle società postindustriale, al fine di scacciare il fantasma della solitudine, talora finisce per rinunciare all’individualismo per rifugiarsi nel conformismo.

di Antonio Fugazzotto

La solitudine. Un dramma che spesso attanaglia l’uomo moderno. Una condizione che fa paura e che letteralmente atterrisce con l’avanzare dell’età. La solitudine è molto più sopportabile se non è una costrizione ma piuttosto una libera scelta e non dovuta a emarginazione dal contesto familiare o sociale. Qualcuno ha detto che “la solitudine è una maledizione se è subìta , una benedizione se è cercata”. Essa può essere una scelta, una conquista, ma si trasforma in privazione, una perdita del mondo quando diventa isolamento che ha i tratti del rancore e dell’ostilità. Un conto è appartarsi un altro è essere messi da parte. Come nelle moltitudini iperconnesse e nei social che sono il regno dell’’illusione di sentirsi meno soli. Ma che troppo spesso nella realtà, quella reale e non virtuale, ci fanno navigare in un mare di solitudine di massa immersi in una enorme folla di isolati.

Ma dando uno sguardo alla storia, nell’epoca e nella cultura dell’antica Roma ad esempio lo star soli era considerato spesso un valore. Un privilegio riservato alla gens patrizia che si poteva permettere il lusso di scegliere la solitudine per gustarne i benefici e nutrire i propri ideali poetici e di quiete idilliaca. “Beata solitudo, sola beatitudo”, dicevano i latini. Celebre assunto attribuito dai più al grande filosofo Seneca. Una condizione privilegiata che permetteva il nutrimento dello spirito e dell’anima.

Venendo ai nostri giorni, oggi siamo molto più connessi, interconnessi e più soli di un tempo. Gli studiosi di comunicazione chiamano tutto ciò in vari modi uno di questi è la “solitudine digitale”. Si riferiscono cioè a quella condizione che ci porta alla vera illusione virtuale di sentirci gruppo sociale, di far parte di una grande famiglia o, come diceva McLuhan, di un “villaggio” in un certo senso “globale”. Una condizione che però provoca spersonalizzazione e si avvia verso una vera e propria distrazione dalla realtà per farci entrare nell’illusorio mondo virtuale .

Ma la solitudine può assumere una connotazione di valore. Può diventare uno status che, come dice Santa Teresa D’Avila, porta al completamento della perfezione dell’anima e dello spirito con l’apporto della preghiera che è un puro e speciale viatico verso l’eterno. Chiudersi in sé stessi, guardare nel proprio intimo, raccogliere le emozioni, ci porta lontano dalle distrazioni, dalle tentazioni, dal peccato che “macchia” l’anima.

Qualcuno sostiene che essere soli può voler dire essere autonomi, essere veramente liberi, essere in grado di non dipendere dagli altri. E’ un’utopia? Forse. Ma tendere all’autonomia può essere una ragione di vita, un impegno per instaurare un rapporto pieno con sé stessi. Grandi mistici o pensatori quali Hegel, teorico raffinato e apprezzato della dialettica che rappresenta il movimento dello Spirito che ne permette e promuove il divenire, afferma che paradossalmente è il servo che, sapendo e conoscendo la tecnica pratica di fare le cose, è lui in realtà a comandare sul padrone. Nel vortice dei nostri tempi, nell’avvilupparci nella routine giornaliera, immersi come siamo nella morsa del consumismo e nei richiami ammalianti delle chat o dei social, crediamo che una differenza fondamentale vada sottolineata. Ed è quella  tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male e di cui abbiamo paura spesso è la presa di coscienza soggettiva della solitudine più che la riprova oggettiva di essa. L’uomo contemporaneo, figlio ed espressione delle società postindustriale, al fine di scacciare il fantasma della solitudine, talora finisce per rinunciare all’individualismo per rifugiarsi nel conformismo. E assume questo atteggiamento per sentirsi parte di un grande gruppo, per identificarsi in qualcosa di importante e di esteso. Ma spesso poi, fatalmente, la forte percezione dell’omologazione lo porta allo scontento verso se stesso, esponendosi alla depressione e talora al suicidio Sono questi i tipici effetti devastanti della spersonalizzazione e della consapevolezza di uno status effimero ed illusorio.

Ma rivolgendoci ancora un po’ all’indietro di una settantina di anni, se diamo uno sguardo alla filosofia dell’esistenzialismo alla Sartre e Camus, scopriamo che, a loro avviso, la persona non può che essere devastata dallo stesso esistere. Non serve essere autonomi o autodidatti. Non è utile o salutare e tantomeno necessario essere soli. L’uomo paradossalmente ha bisogno del prossimo anche quando delinque e si scaglia contro gli altri in modo aggressivo danneggiandoli.

C’è da aggiungere, inoltre, che non si può far parte di una comunità allargata se sei, o ti ritieni, un incompreso. Ti rifugi in una sorta di incomunicabilità alla Michelangelo Antonioni che a questa condizione ha affiancato quella della inadeguatezza dell’individuo che rifiuta di appartenere ad una società in evoluzione alla quale non riesce a tener testa o della quale si sente estraneo. Il consumismo tenta di mercificarlo e di monetizzarlo. Non comunica, non riesce a comunicare, trova difficoltà insormontabili ad inserire se stesso nel
dialogo sociale a sua volta riottoso di romanticismo e di lirismo datato e stantio. E’ solo, è infelice, è disperato.

Ma portando il nostro discorso sul versante letterario sicuramente più costruttivo ed edificante, desidero avvicinarmi al sommo poeta Dante Alighieri, del quale proprio quest’anno celebriamo i 704 anni dalla morte del 1321). Con lui voglio rendere omaggio alla solitudine non trascurando di sottolinearne la portata di sconcerto e di smarrimento che essa provoca in lui quando nel famoso passo dell’ottavo canto dell’Inferno canta:

«O caro duca mio, che più di sette

volte m’hai sicurtà renduta e tratto

d’alto periglio che ‘ncontra mi stette,

 

non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;

e se ‘l passar più oltre ci è negato, ritroviam

l’orme nostre insieme ratto».

 

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e

ciba di speranza buona,

ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».

Il sommo poeta e Virgilio, dopo aver ricevuto dai demoni il divieto di entrare nella città di Dite, si avviano preoccupati verso le mura piene di fuoco di questa città. Sopra di esse compare una schiera di diavoli che impediscono l’accesso e si rivolgono in modo aggressivo a Virgilio dicendo che lui può venire avanti mentre al poeta impongono di ritornare “da solo” da dove è venuto.

Dante sperimenta l’idea terrificante della solitudine, è una condizione che però, come gli ricorda Virgilio, è volontà della Provvidenza. Comprende umanamente che lo star soli, può voler dire tentare di affrontare con le sole nostre forze le improvvise avversità e i pericoli che si frappongono tra di noi ed i nostri obiettivi e dimostrare a noi stessi che possiamo diventare autonomi.

Ma mi piace aggiungere, come dice Piero Dorfles, che tanto è importante, quando si è soli, avere dentro di sé la memoria di un canto dantesco e avvicinarci ad esempio a quel passo della Divina Commedia così affascinante e potente nella sua forza espressiva come il Canto di Ulisse.

Cerchiamolo, facciamolo riaffiorare tra i nostri lontani ricordi scolastici e riviverlo dentro di noi. E’ un mirabile ed insuperato esempio di forza poetica espressiva che non può che riempirci l’anima e lo spirito.

Ma Piero Dorfles ci ricorda anche che il protagonista del bel libro “Se questo è un uomo” di Levi, in un campo di concentramento, mentre si trova a fare la fila per la zuppa, dice: “darei la zuppa di oggi per saper collegare i versi, che non ricordo del Canto di Ulisse” Tanto si sente solo e lontano dal mondo.

E’ consolante ed appagante ritrovare dentro noi stessi il gusto per la poesia alta e intrisa di grandi valori ed ideali che, oggi più che mai, rappresentano il vero viatico per una rinascita individuale e globale.

Questo momento che ci vede spesso soli e colti da generale spaesamento e smarrimento, può e deve essere un’occasione per guardare finalmente dentro noi stessi e lasciarci guidare, per esempio, da versi straordinari come questo: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.

Antonio Fugazzotto: Regista, Autore TV (RAI – Radio Televisione Italiana)- Conferenziere – Presidente del Circolo politico culturale di Roma CIRCOLO DELLE VITTORIE, Presidente dell’Associazione culturale LA GINESTRA di Santa Restituta (Terni).

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