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Arte & Cultura

Parma capitale del Correggio

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I 500 anni dalla realizzazione della cupola di S. Giovanni Evangelista richiamano l’attenzione sulla cupola dell’Assunzione in Duomo.

Sergio Bevilacqua

I 500 anni dalla realizzazione della cupola di S. Giovanni Evangelista richiamano l’attenzione sulla cupola dell’Assunzione in Duomo, la Camera della Badessa in S. Paolo e la grande serie di opere correggesche presso la Galleria Nazionale della Pilotta. La grande arte è sempre contemporanea. E così possiamo dire per l’opera complessa e articolata nei temi, nella luce, nella costruzione delle immagini, nei significati, di Antonio Allegri detto il Correggio (Correggio, 1489 – Correggio, 1534).

Del grande correggese si celebra a Parma il cinquecentesimo anno dal compimento della cupola di S. Giovanni Evangelista, chiesa parte dell’omonimo complesso monastico benedettino, nel pieno centro dell’originale città emiliana. Quella cupola fu coronamento e culmine della sua carriera artistica, un’opera annosa, 4 anni di lavoro, conquistata per la magistralità espressa dal giovane Allegri già nella realizzazione della Camera della Badessa, presso un altro monastero benedettino della città, quello di S. Paolo, ove arrivò probabilmente per l’ottimo lavoro fatto presso il centro benedettino primario in terra mantovana di S. Benedetto Po, abbazia cosiddetta di Polirone, perché piazzata alla confluenza dei due fiumi Po e Lirone. Tale struttura costituiva un antico e autorevole convento in Italia della congregazione cluniacense, nome dovuto alla sua origine a Cluny in Francia, che per secoli affascinò il movimento benedettino con la sua profondità culturale. Furono i Canossa, con l’impegno di tre generazioni (Tedaldo, Bonifacio e Matilde tra il X e l’XI secolo) a creare prima e perfezionare poi quello spazio testimone della proposta religiosa proveniente da Cluny, che era centro di propulsione d’arte e cultura ancora all’epoca del Correggio. Peraltro, l’epoca vedeva il mondo benedettino sensibile alle dispute sulle investiture, e così, accanto agli insediamenti cluniacensi filopapali se ne radicarono altri meno integralisti pur sotto la regola di S. Benedetto, come la congregazione di S. Giustina (poi divenuta Cassinese), meno ostile alle logiche sostenute dal potere imperiale, cui aderì nel 1477 anche il convento parmigiano di S. Giovanni Evangelista. Al convento di Polirone, rimasto cluniacense, ancora tra il XV e il XVI secolo procedettero i miglioramenti, con i contributi di Giulio Romano e del Correggio appunto.

Il caso volle che a Parma il convento dedicato all’ultimo sopravvissuto degli evangelisti canonici, S. Giovanni appunto, nel 1488, 11 anni dopo l’adesione alla congregazione di S. Giustina, fosse devastato da un incendio e che la ricostruzione fosse avviata nei primi lustri del 1500, con affreschi e decori che facessero dimenticare il grave evento. Nacque così il progetto di affidamento al giovane ma già affermato Correggio, che se ne innamorerà. Infatti, accanto a molti altri affreschi e opere ivi lasciate, la cupola dedicata all’ascensione di Cristo in cielo nasconde segnali che soltanto l’ispirazione propria di una motivazione trascendentale e un dialogo chiaroveggente con il committente abate Spinola (omonimo di altro abate Spinola del XVIII) potevano produrre.

Il grande capolavoro, palese e nascosto, che la cupola di S. Giovanni rappresenta è oggi disvelato come mai è avvenuto in 500 anni, grazie al meritorio lavoro di un grande artigiano dell’immagine, il fotografo Lucio Rossi. Ci siamo parlati e già affezionati, con Lucio, a valle della mia constatazione del suo grande e accorato lavoro. Ogni tanto accade, che un’amministrazione pubblica (in questo caso il Comune di Parma) spicchi un volo di coraggio e di sensibilità sinceramente popolare promuovendo con giusto clamore l’iniziativa di un cittadino come quella di Rossi, artigiano dell’immagine, e dalla figlia Silvia, creatrice digitale. Il loro lavoro di trasposizione a terra dell’opera aerea di Correggio, 26 metri ci distaccano dagli affreschi della cupola, ci consente una fruizione e una riflessione originale su quest’opera sublime. Grazie alla fotografia ed elaborazione digitale, calibrata in termini di curvatura della cupola per la trasposizione in piano, alla scelta delle migliori condizioni di fruibilità, alla stampa e la carta, all’allestimento per la migliore presentazione, al bel catalogo soprattutto iconografico, siamo ora in grado di dare corpo all’interpretazione, palese e nascosta, dell’opera correggesca.

È proprio grazie a questo lavoro sull’immagine che si svela, accanto al capolavoro palese della magistralità pittorica, il capolavoro nascosto del Correggio. Alcune scoperte vere e proprie di Rossi padre e figlia cambiano i connotati a un’opera famosa nei secoli, che addirittura ispirò il primo storico dell’arte, quel Giorgio Vasari che nel XVI secolo ci ha lasciato ben due “antologie” dei grandi artisti dell’epoca (1550 e 1568) nelle quali il Correggio è esplicitamente ammirato. La scoperta del grande valore nascosto, che nessun esito critico ha sottolineato a dovere fino a oggi, sta nel senso teologico e sociologico (ecclesiale) dell’opera. Essa, infatti, si legge in duplice ottica: come la Visione di san Giovanni a Patmos (ovvero Ascensione di Cristo tra gli apostoli) e anche, in aggiunta, come il Transito di san Giovanni nel momento in cui Gesù scende ad accogliere il discepolo prediletto, ultimo tra gli evangelisti ad abbandonare la vita terrena. Le due letture sono entrambe sorprendentemente vere, con il risultato di un’anamorfosi che cambia il senso dell’opera, se la si vede dal versante dei fedeli oppure da quello dei monaci, che sperimentano nel coro, dietro l’altare maggiore, il maggior ambito di trasporto mistico. Cioè, gli elementi semiologici che si vedono da un versante, quello intimo del compito sacerdotale, sono propri dell’opera ecclesiale, e si completano con la missione pastorale, che invece si nutre dei segni visibili dalla parte dei fedeli.

I monaci del convento benedettino, che riflettono e portano a tutti il messaggio cristiano, ottengono dall’affresco un continuo ricordo dell’ispiratore della loro missione, l’evangelista Giovanni, la cui effigie solo essi dal coro possono vedere, nella parte bassa del tamburo che regge circolarmente la semisfera cupolare. Cristo, da quella prospettiva visuale, guarda l’Evangelista e lo invita con la mano a seguirlo nell’empireo connotato dalla forte luce giallo-dorata di sfondo, che Correggio usa anche nell’Assunzione dalla Vergine della cupola del Duomo di Parma.

I fedeli, invece, dalla parte opposta, vedono la figura del Cristo che incoraggia all’ascesi, al recepimento del suo messaggio, sorretto dal lavoro dei monaci per il tramite della corona dei dodici apostoli. La figura del Cristo è infatti contornata alla base dalla teoria dai volti dei primi seguaci, pregevole esempio di ritrattistica imperitura, che richiama sia nella struttura l’esperienza leonardesca dell’Ultima cena in S. Maria delle Grazie a Milano che, nel disegno, l’evoluzione raffaellesca, detta manierista, ora in forte consonanza espressiva con l’opera del pressoché coetaneo Giulio Romano ancora a Roma (ma presto a Mantova, con la meraviglia perenne di Palazzo Te).

Merito dunque della riproduzione a terra dell’affresco il poter entrare così bene nello spirito di quest’opera e di questo grande maestro: essa amplia le modalità possibili di fruizione di opere di grande qualità che si presentano lontane dalla vista e anche dall’interpretazione soltanto tecnica che spesso ci si trova a dare dei capolavori del passato.

In mostra presso il Monastero di S. Giovanni Evangelista fino al 31 gennaio 2025, la trasposizione in piano del capolavoro si lega non solo con le opere di Antonio Allegri detto il Correggio citate sopra (Camera della Badessa presso il Monastero di S. Paolo, cupola dell’Assunta presso il Duomo di Parma) ma anche con le altre numerose presenti presso il Museo Nazionale della Pilotta, che fanno di Parma la vera capitale correggesca.

È l’occasione di una riscoperta del grande tramite che fu Correggio insieme a Giulio Romano sempreverde, a Federico Barocci, ora in mostra a Urbino, tra il razionalismo raffaellesco e più in generale umanistico-rinascimentale e la via dell’emozione e del sentimento, proprie di quel Seicento grandioso e già così moderno che si esprimerà nella progressione tra i Carracci, Guercino, Guido Reni e sua maestà Pietro Paolo Rubens.

Con Caravaggio dietro la lavagna, pronto a ripresentarsi molto più avanti.

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