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Le catastrofi: dalla mitopoiesi all’opportunità

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Le recenti forti scosse sismiche verificatesi in Asia, che hanno provocato migliaia di morti e danni ingenti agli insediamenti, hanno nuovamente suonato il campanello d’allarme dato dalle catastrofi naturali.

  di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus

Le recenti forti scosse sismiche verificatesi in Asia, che hanno provocato migliaia di morti e danni ingenti agli insediamenti, hanno nuovamente suonato il campanello d’allarme dato dalle catastrofi naturali. In Italia, le oramai ricorrenti situazioni alluvionali, franose, sismiche e gli attuali fenomeni bradisismici nella zona Flegrea alimentano un segnale molto frequente della caducità delle cose e delle persone. Nonostante ciò, la consapevolezza collettiva arranca nel prenderne realmente coscienza e nell’adottare comportamenti conseguenti.  La sequenza mediatica che si associa a tali eventi disastrosi: cronaca e dettagli ripetuti con ritmi intensi nella prima fase, riflessioni e interviste ad esperti sui rischi generali di quel tipo di catastrofe, timori di manifestazioni di quegli eventi in zone viciniori, poi rallentamento e riduzione dell’interesse, archiviazione come evento “naturale imponderabile”, tende a ripetersi con sufficiente omogeneità.

Una struttura narrativa che mescola dolore, sorpresa, senso di impotenza, invito alla solidarietà (ma non sempre), dettagli di vita personale di richiamo mediatico e, di fondo, la problematicità del rapporto tra le nostre società e le grandi catastrofi naturali, che continuano ad essere viste con una colorazione di fatalità e con venature romantiche.  Ove il significato di fato, nella sua etimologia originaria, sta anzitutto per parola della divinità che indica un destino irrevocabile, ma anche, in epoche più recenti semplicemente destino. Destino, una predeterminazione delle cose che accadono al di sopra delle capacità di azione e comprensione umane.  Ed ecco che la mitopoiesi scaturisce dall’arretrare della teoretica scientifica, l’inspiegabile e il destino emergono inaspettati da una cultura che appare, ma spesso appare soltanto, tutta orientata al sapere scientifico. La mitopoiesi crea racconti aggreganti, amplificati dai moderni mezzi di comunicazione, racconti per certi versi simili a quelli mitici classici antichi, nei quali ci sono l’uomo, la natura e il rapporto dell’uomo con la natura, ossia con il cielo, la terra, il mare, il sottosuolo, che diventano luoghi pericolosi o incantati, o si animano come persone, animali, oggetti magici.

Molti miti sono costruiti sulle sensazioni di base: paura, dolore, piacere, rabbia. L’uomo ne è dominato e incontra i suoi limiti di fronte alla natura e agli dèi, scontrandosi con l’ineluttabile. Mentre il bene si può manifestare con l’emulazione filantropica e l’altruismo (organizziamo i soccorsi e doniamo) alla riscoperta di radici comuni e di una altrettanto comune fragilità. Gli eventi catastrofici incrinano alcune certezze, anche le grandi potenze economiche e politiche paiono ridimensionate, l’ineluttabile sovrasta le risse e le divisioni umane rendendole ridicole; le catastrofi creano ansia e disagio. Oggi ci si pone una questione che probabilmente nella storia precedente non si era posta: la questione della tecnica, cioè la tecnica come problema. La tecnica non riesce a risolvere tutti i problemi, non garantisce la sopravvivenza rispetto alle grandi catastrofi, non solo, è essa stessa divenuta un problema, l’attualità dei timori per l’IA è nota.

Nella particolare configurazione che oggi assume l’immaginario collettivo in relazione alle mitologie del progresso e agli scenari catastrofici correlati alle attuali crisi sociali e ambientali, l’immaginario sociale e mediatico riveste un ruolo formativo rilevante: con le catastrofi la nostra specie torna a naturalizzarsi e a risentirsi fragile. Una delle caratteristiche dell’uomo contemporaneo è l’esposizione all’indeterminatezza, alla trasformazione costante, all’appello a scelte personali che saranno poi probabilmente oggetto di pentimento, recriminazione, delusione, rimpianto o conflitto.   Cosa fare? Riprendendo una frase che Jung scrisse ad una Signora che chiedeva suggerimenti: “Le sue domande sono senza risposta perché vuole sapere come vivere. Si vive come si può. Non esiste un percorso unico e definito per l’individuo che sia prescritto o appropriato.” (corrispondenza del 15-12-1933).

Le catastrofi possono allora trasformarsi da eventi mitopoietici destabilizzanti o passivizzanti in opportunità per mutamenti guidati dalle conoscenze scientifiche ma anche da valori etici positivi. Un’altra frase di Jung può chiarirne meglio il senso: “Non sono quello che mi è successo, sono quello che ho scelto di essere”.  Ciò vale anche per la nostra indifferenza, sottovalutazione e scarsa memoria per i rischi, sebbene spesso le scoperte nascano dal rischio, la storia degli studi sulla radioattività è esemplare in ciò. E la necessità dell’etica vuol dire essere all’altezza del problema, riuscire a vedere e comprendere meglio rispetto ad obiettivi condivisibili. Senza con ciò marginalizzare scienza e tecnica, che vanno anzi sempre sostenute per la loro indubbia capacità metodologica di aiuto nel risolvere i problemi.  Invece di ridurre la sfida al banale contrasto fra pessimisti e ottimisti, emergenze e rischi ci sfidano ad essere attivi e propositivi. Il rischio richiama l’incertezza e la probabilità, ma anche la necessità di scelte comportamentali adeguate.

La valutazione del rischio consiste nella valutazione di tali probabilità e gravità, ma tutto allo scopo di scegliere le adeguate misure di sicurezza. Quindi probabilità e incertezza, ma anche valutazioni, scelte e decisioni. C’è l’opportunità di costruire in modo diverso, di regolamentare gli insediamenti e le norme di sicurezza, di ridurre i livelli di rischio ambientale, di ragionare in termini di comune interesse, di valutare seguendo le conoscenze scientifiche e trarne le conseguenze operative, di diffondere la cultura delle procedure da seguire in situazioni critiche ed emergenziali. Non ultimo, di Investire nella sicurezza collettiva. Queste possono essere scelte concrete, questo può costituire il “ciò che scegliamo di essere”.

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