Il Rapporto annuale 2017 dell’Istat descrive un Paese pieno di contraddizioni, dalle diseguaglianze sociali all’aumento degli anziani.
Gli over-65 sono il 22%, è la più alta nell’Unione europea. Nel contempo abbiamo un nuovo minimo delle nascite (474mila). Mentre sono ancora quasi 7 su 10 i giovani under-35 che vivono a casa dei genitori, e sono 3,6 milioni le famiglie senza redditi da lavoro.
Per effetto della crisi sono sempre di più le famiglie che rinunciano a qualcosa, anche alle visite mediche specialistiche.
Aumenta il numero delle persone che hanno rinunciato a una visita specialistica negli ultimi 12 mesi, perché troppo costosa, è cresciuta tra il 2008 e il 2015 da 4,0 a 6,5% della popolazione; il fenomeno è più accentuato nel Mezzogiorno, sia come livello di partenza sia come incremento (da 6,6 a 10,1%).
“Persiste il dualismo territoriale: – rileva l’Istat – nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati”. D’altra parte, spiega il Rapporto, “la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è in Italia tra le più basse in Europa”.
“Tra i gruppi sociali le diseguaglianze nelle condizioni di salute – aggiunge l’Istat – sono notevoli. Nel gruppo della classe dirigente tre quarti delle persone si dichiarano in buone condizioni di salute, mentre in quello più svantaggiato di anziane sole e giovani disoccupati la quota scende al 60,5%”. Per i meno abbienti calano anche i controlli di prevenzione ai tumori per le donne.
“La diseguaglianza sociale – spiega l’Istat – non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi”.
Per l’Istat “la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse”.
La spesa per consumi delle famiglie ricche, della ‘classe dirigente’, è più che doppia rispetto a quella dei nuclei all’ultimo gradino della piramide disegnata dall’Istat, ovvero ‘le famiglie a basso reddito con stranieri’.
Una capacità di spesa ridotta significa anche meno opportunità. “Malgrado una maggiore partecipazione al sistema di istruzione delle nuove generazioni dei gruppi svantaggiati rispetto a quelle più anziane, le differenze sono ancora significative”. Secondo l’Istat ecco che “i giovani con professioni qualificate sono il 7,4% nelle famiglie a basso reddito con stranieri e il 63,1% nella classe dirigente”.
L’Istat traccia una nuova mappa socio-economica dell’Italia, dividendo il Paese in nove gruppi in base al reddito, al titolo di studio, alla cittadinanza e non guardando così più solo alla professione, come nelle tradizionali classificazioni. I due sottoinsiemi più numerosi sono quelli delle ‘famiglie di impiegati’, appartenete alla fascia benestante (4,6 milioni di nuclei per un totale di 12,2 milioni di persone) e delle ‘famiglie degli operai in pensione’, fascia a reddito medio (5,8 milioni per un totale di oltre 10,5 milioni di persone).
Quasi sette giovani under35 su dieci vivono ancora nella famiglia di origine. Lo rileva l’Istat nel Rapporto annuale. L’Istituto spiega che nel 2016 i 15-34enni che stanno a casa dei genitori sono precisamente il 68,1% dei coetanei, corrispondenti a 8,6 milioni di individui.
In Italia nel 2016 si contano circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro, ovvero dove non ci sono occupati o pensionati da lavoro.
Si tratta del 13,9% del totale, con la percentuale più alta che si registra nel Mezzogiorno (22,2%)
Si tratta di tutti nuclei ‘jobless’ dove si va avanti grazie a rendite diverse, affitti o aiuti sociali. Nel 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila, il 13,2% del totale.
Sono 5 milioni gli stranieri residenti in Italia al 1ø gennaio 2017, e prevalentemente vivono al Centro-nord. La collettività rumena è di gran lunga la più numerosa (quasi il 23% degli stranieri in Italia); seguono i cittadini albanesi (9,3%) e quelli marocchini (8,7%).
Nel 2016 l’incremento degli stranieri residenti è stato però molto modesto, 2.500 in più rispetto all’anno precedente: ciò – spiega l’istituto di statistica – si deve soprattutto all’aumento delle acquisizioni di cittadinanza (178mila nel 2015). Di queste, quasi il 20% ha riguardato albanesi e oltre il 18% marocchini.
I permessi per asilo e motivi umanitari attualmente rappresentano quasi il 10% dei permessi con scadenza (esclusi quindi quelli di lungo periodo), il doppio rispetto al 2013.
Nel 2016 si è registrato un nuovo minimo delle nascite (474mila). Il numero medio di figli per donna si attesta a 1,34 (1,95 per le donne straniere e 1,27 per le italiane). Il saldo naturale (cioè la differenza tra nati e morti) segna nel 2016 il secondo maggior calo di sempre (-134mila), dopo quello del 2015.
Al 2017 la popolazione residente è scesa a 60,6 milioni. Un nato su 5 in Italia ha almeno un genitore straniero. Dal 2008 le nascite che ogni anno hanno riguardato coppie non italiane sono più di 70mila.
Nei recenti flussi migratori si registra un sensibile aumento dei permessi per asilo e motivi umanitari.
Nel 2015 sono arrivati a superare il 28 per cento del totale dei nuovi rilasci (nel 2013 la loro incidenza era del 7,5 per cento). Attualmente, i permessi per asilo e motivi umanitari rappresentano quasi il 10 per cento dei permessi con scadenza – esclusi quindi quelli di lungo periodo – in corso di validità, mentre nel 2013 rappresentavano meno del 5 per cento. Quella dei rifugiati e dei richiedenti asilo è una presenza con caratteristiche particolari. In generale la composizione per genere dei richiedenti asilo è particolarmente squilibrata: in circa nove casi su dieci si tratta di uomini, con alcune eccezioni (ad esempio la collettività ucraina e quella nigeriana).
Per molte cittadinanze gli ingressi per motivi legati all’asilo sono prioritari rispetto alle migrazioni per lavoro o ricongiungimento familiare. In particolare per Mali, Gambia e Afghanistan gli ingressi per asilo hanno un peso pari o superiore al 95,0 per cento del totale.
Nei prossimi anni, – sostiene sempre l’Istat – considerando la situazione geopolitica nelle aree di provenienze di questi migranti, è verosimile che i flussi di richiedenti asilo siano destinati a rappresentare una quota crescente delle migrazioni verso l’Italia.
Il progressivo invecchiamento della popolazione è anche il risultato dei miglioramenti della medicina e dei sistemi di cura, del diffondersi di comportamenti e abitudini più salutari, e della diffusione della prevenzione. L’aumento della popolazione anziana, tuttavia, comporta la rapida crescita dei bisogni di cura. In tal senso l’invecchiamento attivo, la lotta alla diffusione di patologie croniche attraverso la prevenzione e l’adozione di stili di vita salutari fin dall’infanzia, rappresenta l’obiettivo da perseguire per garantire la sostenibilità del nostro sistema sanitario, che continua a essere tra i più qualificati nel panorama europeo.
Nonostante la lunga fase recessiva abbia portato anche maggiori difficoltà nell’accesso ai servizi sanitari, non emergono effetti significativi sulle condizioni generali di salute della popolazione, che continuano a migliorare. La longevità della popolazione aumenta e parallelamente si accresce, benché in misura più contenuta, il numero di anni vissuti senza limitazioni nelle attività della vita quotidiana dopo i 65 anni: da 9,0 a 9,9 anni per gli uomini tra il 2008 e il 2015, da 8,9 a 9,6 anni per le donne, nello stesso periodo.
Nel 2016 i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato precocemente gli studi sono 575 mila. L’incidenza media di abbandoni scolastici è maggiore tra gli uomini (16,1 per cento in confronto all’11,3 delle donne). Le differenze territoriali sono marcate: il fenomeno è molto più diffuso nel Mezzogiorno (18,4 per cento) rispetto al Nord e al Centro (circa il 10 per cento in entrambi i casi).
La scelta di abbandonare gli studi precocemente può essere associata a una domanda di lavoro che distoglie i giovani dal compimento del loro percorso formativo ma è anche, e più spesso, indicatore di un disagio sociale che si concentra, per l’appunto, nelle aree meno sviluppate del Paese.
Inoltre, il fenomeno è piuttosto critico se si considera l’impatto dell’ambiente familiare di provenienza.
La diffusione del fenomeno nei gruppi sociali è infatti molto diversificata. L’incidenza è massima nel gruppo delle famiglie a basso reddito con stranieri in cui poco meno di un giovane su tre abbandona gli studi prima del diploma. Di contro, incidenze molto contenute di abbandoni – inferiori al 4 per cento – si riscontrano nei tre gruppi con reddito superiore alla media, quelli della classe dirigente, delle pensioni d’argento e delle famiglie di impiegati.
Queste disparità tra gruppi sociali si accentuano notevolmente nel Mezzogiorno, dove a valori di abbandoni precoci analoghi a quelli nel Centro-nord per i giovani dei gruppi sociali più avvantaggiati, si contrappongono incidenze del 44,8 per cento (29,4 per cento nel Nord) di abbandoni precoci per coloro che vivono nelle famiglie a basso reddito con stranieri e, di circa il 25 per cento per i gruppi delle famiglie a basso reddito di soli italiani e delle famiglie di anziane sole e giovani disoccupati (nel Nord poco più di uno su dieci).
Questi divari emergono esclusivamente nei gruppi più deboli. Anche in considerazione di questo, nel determinare gli abbandoni scolastici il disagio sociale sembra avere un peso più importante dell’attrazione esercitata dalla possibilità di inserimento occupazionale. In confronto al 2008, tuttavia, per il gruppo delle famiglie a basso reddito con stranieri si segnala il maggior calo del fenomeno, con una riduzione di 14,2 punti percentuali.
Le forti differenze territoriali che connotano il mercato del lavoro italiano condizionano i tassi di occupazione femminile, che passano dal 58,2 per cento nel Nord al 31,7 per cento nel Mezzogiorno.
Ne consegue che il divario di genere nei tassi di occupazione è molto più basso nel Centro-nord (circa -15 punti percentuali) che nel Mezzogiorno (-23,6 punti percentuali). I gruppi che si caratterizzano per divario più elevato tra tassi di occupazione maschile e femminile nel Mezzogiorno sono quelli delle famiglie dei giovani blue-collar e di quelle degli operai in pensione.
Il Mezzogiorno, peraltro, si caratterizza anche per la quota massima del tasso di inattività femminile (59,2 per cento) e per la presenza di uno “zoccolo duro” di donne da sempre fuori dal mercato del lavoro: il 33,5 per cento delle donne tra 50 e 64 anni contro l’11,8 per cento nel Centro e il 7,0 per cento nel Nord. Nei gruppi, le incidenze di donne di 50-64 anni che non hanno mai lavorato nella vita sono più elevate in quelli delle anziane sole, delle famiglie a basso reddito di soli italiani e di quelle tradizionali della provincia.
fonte :regioni.it