Connect with us

Diritti umani

I ‘Labirinti’ della mente che accomunano ogni essere umano

Published

on

Tempo di lettura: 5 minuti

“Labirinti 1, funzione e destrezza soggettiva tra scontato e cogito” è questo il titolo dell’ultimo libro di Rosario Rito. L’intervista all’autore, scrittore e poeta, che, diversamente abile dalla nascita, coglie la vera essenza della vita di chiunque faccia parte dell’umanità

 

Labirinti 1, funzione e destrezza soggettiva tra scontato e cogito è questo il titolo dell’ultimo libro di Rosario Rito. L’autore con il quale mi accingo a dialogare è un sessantaduenne che scrive poesie dal 1981 e la sua prima raccolta si intitola come la prima poesia del volumetto, “Fratello”. Due anni dopo pubblica la raccolta “Momenti” e nel 1994 la commedia “Sete di uguaglianza”. Nel 1999 pubblica “Ciao Amico”, un contenitore unico di tutte le sue poesie più dieci nuove. È del 2001 “Educarsi alla Disabilità” e nel 2010 esce “Gesù il pescatore” prima pubblicazione dell’autore per Pellegrini editore, che è anche editore del volume di cui discorreremo oggi.

Labirinti racchiude molti frammenti della sua vita vissuta e molte indicazioni e consigli. Rosario è infatti spastico dalla nascita ed è la perfetta dimostrazione di quanto “l’educarsi alla disabilità” o “nella disabilità” possa schiudere pensieri prigionieri di un corpo al quale quella mente non appartiene.

Con coraggio, ma soprattutto con ironia ripercorre la sua vita, le complicanze, la solitudine e le delusioni. La sua grande gioia e voglia di vivere lo inducono a studiare per “semplificare” ad altri il suo percorso.

La prima domanda, sicuramente, non può essere altra che: perché scrivere? Cosa pensava il giovane poeta degli inizi, cosa pensa l’autore di oggi?

Ho sempre scritto per comunicare, dire qualcosa che con gli occhi non si può vedere, non perché la disabilità nasconda la realtà della persona, ma poiché, credo che in ognuno di noi ci sia un qualcosa d’invisibile che è il nostro essere, fonte del sentire, provare, sperare. È morto il poeta di quarant’anni fa: non riesco più a dire ciò che riuscivo o credevo di riuscire a esprimere  in pochi versi. Oggi ho bisogno di elaborare il mio pensiero, le mie sensazioni e questo può avvenire solo con il nostro auto confrontaci. Quando parla di ‘Auto confronto’, intendo dire, tentare di cercare a tutti i costi, un compromesso tra il nostro Io e il proprio Sé. Il mio io mi limita nella possibilità del poter fare tutto ciò che fanno gli altri – guidare, radermi o fare la doccia da solo, essere indipendente nell’uscire è molto altro. Il mio Sé invece mi dice che sono Rosario e come persona ho responsabilità e doveri. Ecco cosa intendo per auto confrontarci: trovare un giusto equilibrio tra ciò che avremmo voluto essere e ciò che siamo ed io sono semplicemente espressione dei miei difetti e contraddizioni come lo sono tutti. Almeno credo”.

Handicappati, disabili, diversamente abili, speciali. Tanti sono i nomi che vengono associati alla sua “condizione”, come il termine più usato per chi in genere, in condizione di presunta normalità, si avvicina a questa condizione è volontario. Come vede il volontariato e quale invece è secondo lei il termine che rappresenta il rapporto che si instaura?

“Esistono solo due termini che possono definire in modo chiaro questa “condizione” dell’essere umano: ‘Handicappato’ e ‘Incosciente del proprio sé’. L’essere handicappato lo associo ai cosiddetti ‘Cerebrolesi’, ma non come offesa o recriminazione, bensì come ‘Esseri puri’, ‘Speciali’, ‘autentici’. Il peggior handicap risiede nell’incoscienza di Sé. E qual è questa incoscienza o meglio, come si manifesta? L’incoscienza di sé si ha nel momento in cui, decidiamo di uccidere colei che non ci ama più o nel momento in cui si abusa, di bambini. di anziani e disabili. Questo ci fa capire, senza alcuna ragion di dubbio che il peggior handicap è quello che non si vede.

Riguardo al Volontariato, credo, anche se sono stato tra i promotori, che sia Vibo Valentia che in Calabria, si abbia un approccio e si faccia un uso contorto di questa parola. Non abbiamo saputo distinguere, il termine ‘Opportunità’ da quello del ‘Occasione’. Tutto quello che noi facciamo, rischia di lasciare il tempo che trova se lo facciamo per avere un’opportunità. Volontariato è un termine che non sopporto. Per essere fruttuoso, dev’essere un’occasione per conoscere e conoscersi; credere nell’altro; parlare liberamente senza pregiudizi se non vogliamo cadere nell’assistenzialismo e in Calabria, c’è ancora molta strada da fare. Il conoscere o il desiderio di sostenersi a vicenda, ci conduce verso orizzonti di mondi nuovi e mai esplorati, ma per raggiungere questo, occorre prendere consapevolezza che prima di saper spingere una carrozzella, occorre e bisognerebbe imparare a camminare insieme”.

Questo racconto della sua vita, sicuramente è un modo per conoscere un mondo complesso e per i più sconosciuto, perennemente coperto da un sottile velo che non rivela mai completamente le problematiche inerenti ed anzi il più delle volte traccia limiti. A chi pensa sia importante rivolgere questa sua pubblicazione e perché?

“Ho raccontato la mia vita per mettere a confronto l’isomento del passato – mi riferisco agli istituti – con l’isolamento di oggi. Con ciò non voglio dire che non è cambiato nulla. Anzi, nonostante le difficoltà, le contraddizioni dei nostri governanti e del mondo ecclesiale, possiamo dire che siamo nell’oro. Ad esempio, io sono entrato in istituto all’età di sei anni e sono rientrato per sempre a casa a venti. Io incominciai a capire e toccare con mano la mia diversità proprio nel restare a casa. Crescere in istituti con bambini o ragazzi come te, non ti da l’idea di come ti considera la società. Non voglio dire che non sentivamo di essere chiamati ammalati o handicappati in istituto, ma per renderti conto della considerazione nella società hai bisogno del sapere, dell’esperienza. Non l’ho scritto per dei lettori specifici o addetti ai lavori, ma per tutti quelli che ancora oggi, credono che la disabilità sia una malattia o addirittura, che siamo degli eterni sofferenti. Assolutamente falso. Noi soffriamo perché umani e gioiamo perché persone. Anzi, è proprio il fatto che ci vedono come degli eterni sofferenti che mi da fastidio di più: come un paio di gambe perfette ci dona la possibilità di camminare autonomamente, così una carrozzina (sempre che le leggi vengano rispettate). Quindi è un libro per tutti coloro che desiderano sapere, se sia vero o no che esiste la disabilità o è semplicemente , una visione  ottica, basata sull’apparenza”.

Nel volume parla della difficoltà di accettazione, di vergogna delle famiglie, della concezione arretrata, relativamente agli anni ’70-’80. Pensa sia variata la mentalità o il suo scrivere vuole essere una denuncia in tal senso?

“Nessuna delle due. Credo vi sia uno stato sofferente, angoscioso, dovuto al parto. Se una madre non trova la forza di reagire – cosa certamente non facile – alla delusione del parto, all’amarezza di aver partorito un figlio/a con realtà diverse dal comune, esisteranno sempre dei timori o perplessità sulle effettive capacità della propria prole. Qualunque sia la condizione e in qualsiasi realtà si trovi a vivere la prima fiducia per persone con limitazioni d’agilità motorie o cognitive deve arrivare dalle famiglie, da coloro che sono più vicine. Questo significa credere nelle sue ambizioni e desideri guardando ad un figlio che vuole solo realizzare se stesso. Noi, non sappiamo solo convivere con la nostra realtà, ma anche educarla per raggiungere l’obiettivo. La famiglia, non deve essere semplicemente la custodia della persona disabile, ma l’appoggio spirituale, emotivo e concreto della realizzazione di quella persona che crede in se e che vuole crearsi un futuro”.

Istruzione e socializzazione sono sicuramente due dei requisiti fondamentali, quali sono le altre “dotazioni” indispensabili per il raggiungimento del giusto livello di autonomia e quali sono i parametri di considerazione?

“Come dicevo poc’anzi, nessuno di noi è completamente autonomo. Tutti siamo disabili o disadattati in qualcosa. È logico però che per una disabilità accentuata come l’autismo o difficoltà cognitive, siano richiesti collaboratori con professionalità specializzate. Persone che riescano a creare empatia con il bambino o ragazzo in difficoltà. Riguardo alla socializzazione, vi è da dire che se è pur vero che l’abbattimento delle barriere architettoniche ha portato buoni frutti a livello di integrazione sociale e lavorativa, il requisito fondamentale è dato dalla scuola. Quando si è piccoli, non si notato le diversità, anzi, si va incontro, in soccorso, in aiuto e questo ci fa capire che si può costruire una società diversa.  I grandi discorsi sociologici o di fraternità, accettazione, solidarietà, non servono più a nulla. Solo quando capiremmo che come persona si nasce, limiti si hanno, la disabilità si tramuterà in un modo di essere e l’essere acquisterà la sua splendida originalità”.

Print Friendly, PDF & Email