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Giuseppe Briffa, il direttore artistico che dona le note al cinema muto con The SILENT imAGE

Giuseppe Briffa, direttore artistico siracusano e ideatore del Cine Oktober Fest racconta la visita della settima arte nella sua vita e la nascita di The SILENT imAGE. Cinerassegne basate su pellicole del cinema muto musicate mediante un lavoro di sperimentazione sonora.
Un impeto e tempesta, nutrito di malinconia, che nelle braccia della notte trova la sua vera essenza e il bacio della sua ossessione: il cinema. Questi, i tratti preponderanti di Giuseppe Briffa, direttore artistico nato nel 1987 a Siracusa, montatore da 20 anni di pellicole e, come direbbe l’accademico e suo amico Peppino Ortoleva con cui realizza delle rassegne, colui che “Fa un lavoro strano, che non esiste”. A metà strada fra divulgatore cinematografico, critico e uno studioso di storia e critica dell’immagine, quel che colpisce è la personalità rivestita da un velo oscuro in contrasto con lineamenti angelici.
E proprio nelle tenebre a lui tanto care avviene la creazione di The SILENT imAGE. Una selezione di pellicole del cinema muto destinate a cinerassegne, frutto di una sperimentazione sonora. Giuseppe, infatti, musica tutte quelle pellicole mancanti di colonna sonora e lo fa con una selezione e commistione di generi che vanno dalla musica classica, al punk, fino alla techno. Un lavoro lungo e tecnico nelle profondità di psiche e intenti dei registi d’altri tempi, oltre a un approfondimento intimo delle emozioni, così da creare una visione empatica nel pubblico.
Ma la vena artistica di Giuseppe non si esaurisce con i Silent, perché a lui la città aretusea deve la fondazione dell’associazione Postcinema, il Cine Oktober Fest, manifestazione cinematografica giunta alla terza edizione, e presto anche una nuova associazione culturale: Cinedrome. Titolo emblematico dal film Videodrome di David Cronemberg, che ingloba Cinehaus (attività come festival, cine-concerti, rassegne cineclub e format) e con la quale insieme a Claudio Pavia, Gianandrea Cama e Lorenzo De Benedictis punta a esprimere la sua ossessione per la settima arte e il montaggio che lo chiamano a sé fin da bambino con la passione per videoregistratori, videocassette e anche per l’informatica: “Sono cresciuto con mio zio e la 56k e da piccolo ho cominciato ad assembrare hardware e software”.
Passioni variegate che esprimono la sua natura di persona sempre in divenire, intenta a combattere i contrasti ed esorcizzare le paure personali; cosa che cerca di fare anche con gli spettatori, mettendoli nelle condizioni di scoprire qualcosa che magari non avrebbero mai visto e di cui alla fine si innamorano.
Diamo inizio alla proiezione delle sue esperienze, a partire da quella nelle agenzie milanesi, fino alle sue creature Silent, senza dimenticare la musa, un’arte spesso “ospite pessima” con la quale deve fare i conti.

Il gabinetto del dottor Caligari – Silent – Progetto grafico di Claudio Pavia
Hai lavorato a Milano nel settore fotografia e video con alcune agenzie. Che ricordi hai di quel periodo?
«Avendo il ciclo circadiano inverso, dormendo la mattina e svegliandomi il pomeriggio, mi mandavano nei posti più disparati: rave, discoteche e pure locali sadomaso. Poi, dopo un anno ho lasciato, perché abitavo in periferia ed ero fuso; la mattina appena arrivavo dovevo post produrre e montare almeno 500/600 foto e video, inviarli, aspettare il responso e mandare le copie scelte.
Infine, potevo crollare. Questo fino a quando una sera, accanto a una colonnina audio alta 6 metri, un mio collaboratore mi dice che stavo perdendo sangue dall’orecchio. Da allora sento il 30% in meno dal lato sinistro. Così dopo Roma e Lecco, sono tornato a Siracusa, dove ho cominciato a fare delle piccole rassegne cinematografiche e il corso di volontariato con la sezione Sma 1 dell’Asp autismo adulti. Tutto ciò, fino ad arrivare alla prima edizione del Cine Oktober Fest».
Se la tua vita fosse quella di un personaggio cinematografico, chi sarebbe?
«Mi sento l’incarnazione di una citazione di Fritz Lang, che diceva di girare i suoi film come un sonnambulo. Se penso al mio passato e a quello che avrei voluto essere, vivo i miei ricordi fra uno stato il sonnambulismo e dormiveglia».
Una professoressa di italiano, invece, mi disse che ero il personaggio Oblomov, tratto dall’opera di Ivan Aleksandrovič Gončarov, solo che ancora non lo sapevo. Un personaggio pigro, anche se questa pigrizia cerco di combatterla reagendo».
Quando nasce la passione per il cinema?
«È un’ossessione, più che passione. Al contrario delle passioni, circolari che ti sconquassano i contatti neuronali e possono anche arrivare a spegnersi, l’ossessione è qualcosa di lineare, che avvinghia e tiene stretto; una febbre vera e propria.
A 11 anni dopo aver sognato la scena degli Uccelli di Hitchcock, quella dei gabbiani che scendono dall’alto (nel gergo cinematografico si chiama l’occhio onnisciente: una visione avulsa da quella che può avere l’essere umano, quasi divina), mi sveglio e chiedo ai miei coetanei se lo conoscessero, ma nessuno sapeva.
Così, in bici giro tutte le videoteche, fino a quando ne trovo una con un omone che mi dice: “Tu cerchi gli Uccelli di Hitchcock” e mi dà Psyco e gli Uccelli. Li vidi la domenica mattina (quando ancora mi alzavo al mattino) e mia madre terrorizzata da Psyco, mi chiedeva se ero d’accordo che rimanesse con me; ma rispondevo: “No!”».

Giuseppe Briffa con lo storico e accademico Peppino Ortoleva presso il Biblios café di Siracusa
Hai ideato i Silent. Se dovessi spiegargli a chi non li conosce, cosa diresti?
«Prendo delle pellicole vecchie, acquistate o trovate gratuitamente sui canali streaming, soprattutto su YouTube. Poi, dopo aver letto tantissimo sull’opera cerco di restaurarla ulteriormente e musico una traccia neutra con più tracce, che può variare dalla musica classica, all’elettronica francese contemporanea o alla tecno. Infine, con i sintetizzatori la musico in live aggiungendo degli effetti. Ritengo che la cinematografia muta degli albori non aveva una colonna audio (e se l’aveva non li musico mai, come i film di Chaplin tutti musicati da lui).
La musica era come un sostegno per dare spettacolo. La pellicola si poteva proiettare nei bordelli e nei grandi teatri barocchi; nei primi c’erano i classici pianisti da piano bar, nei secondi il golfo mistico per musicarli.
Io cerco il contrasto fra musica e immagine che deve restituire la vera essenza di quello che il regista ha proposto a livello di composizione scenografica e tecnografica. Devo entrare nella mente del regista per comprenderne gli umori e lo stato d’animo. Poi, montare che per me è come scrivere, devo esaltarmi e andare oltre me stesso per arrivare al regista che lo ha concepito e quindi musicarlo nel miglior modo possibile».
Quanto tempo impieghi per un Silent?
«Dalle due alle tre settimane per un lungometraggio, due giorni per un corto e quattro per un mediometraggio più o meno».
Secondo quali criteri scegli le musiche di accompagnamento?
«Mediante la mia infatuazione verso l’opera; sono estremamente innamorato degli autori cinematografici e delle loro opere. Sono innamorato dell’altrove e dell’intangibile, di quello che non si può tenere in mano, dell’inconsistenza che è l’arte cinematografica, l’immagine proiettata attraverso l’occhio celeste».

Giuseppe Briffa mentre musica il film Genuine di Robert Wiene
Il Silent più faticoso?
«J’accuse di Abel Gance. Il mio 45esimo muto musicato; quello invece che mi darà più filo da torcere è il Napoleon, sempre dello stesso regista, della durata di 330 minuti».
Se la tua città fosse un Silent, quali musiche useresti?
«Musicherei per compartimenti stagni, in base all’identità territoriale dei quartieri. Scala Greca, lo farei con uno stile melodrammatico, della più alta e bassa lirica ottocentesca; la Borgata, la farei molto underground e punk. Ortigia sulle sviolinate con Beethoven, Šostakovič, Čajkovskij, Mahler o Hendel, e riprendendo il grande periodo vittoriano».
Il cinema per te è…
«Qualcosa che nasce osceno, teologico e orrorifico. Osceno, perché essendo intangibile e parlando di un mondo altro, se ne frega della realtà. La verità si trova nella finzione, è oltre la consistenza della nostra vita.
Essendo poi intangibile riporta anche alla teologia, con un totem di culto (lo schermo), una proiezione celeste/manifestazione dell’assenza, che diventa presenza e con gli adepti che in silenzio, assorbono il messaggio e l’immagine che dall’incorporeo diventa manifesto nell’intangibilità totale.
E poi l’aspetto orrorifico, quello infantile o del fanciullino. Il cinema dei primordi ha fatto sobbalzare il pubblico, lo ha impaurito e quell’essenza orrorifica emerge ancora a ogni proiezione, e non mi riferisco al genere».

Proiezione Silent: Rapsodia Satanica presso Biblios café di Siracusa
Dichiari in una vecchia intervista che «L’arte cinematografica muore non appena la fai, ma è perpetua, come uno spettro che ritorna sempre». Lo pensi ancora o nel tempo la visione è cambiata?
«Lo penso ancora. L’arte cinematografica muore appena la fai, perché è in divenire. Il fotogramma appena recepito è già svanito nel nostro cervello; quindi, abbiamo il senso del passato che è uno spettro, del presente che cede il passo a un altro presente e il futuro che è un miraggio. Tutta la cinematografia si trova nell’aion, non chronos, un tempo senza tempo, come lo definivano i greci».
Cosa ne pensi dell’arte cinematografica attuale?
«Penso ci sia una grandissima problematica: il cinema è tornato in modo prepotente a essere romano. Fra gli anni ‘80 e ‘90 il cinema si era espanso, era sceso nella zona partenopea e si faceva più cinema anche in Sicilia, Milano e Torino. Adesso questa cloaca cinematografica è tutta sedimentata un’altra volta a Roma.
Ma a differenza di quello massimo che abbiamo avuto della commedia all’italiana o sociopolitico del boom economico, esso è una copia molto scarsa di quell’altro. Ad esempio, l’ultimo film di Muccino è un chiaro riferimento a “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, ma in realtà non ha niente di quel tipo di poetica. Penso che i registi italiani ci siano, e sono anche tanti e bravissimi solo che gli devono dare lo spazio».
Quali sono i tuoi progetti e iniziative future?
«Il Sicilian Shakespeare Fest, dove terrò una linea cinema con giornate sia al Biblios café con cui collaboro dal 2022, sia al Chiostro dei Cappuccini con proiezioni che vanno dall’Amleto di Carmelo Bene, all’Otello di Orson Welles, fino a Ran di Kurosawa e i classici di Laurence Olivier.
Poi, sono in cerca di una sede per la nuova Cinedrome che dovrebbe comprendere l’installazione di un set per video tematici e strumenti digitali per creare un connubio teatro/cinema.
Conto anche di fare una grande mostra cinematografica con cimeli che ho in comodato d’uso su tutta la collezione privata di Remo Romeo con molti proiettori e 3 esemplari speciali: 2 datati fra il 1895 e il 1897 di marca Lumière e il primo proiettore stereoscopico 3d del ‘29/’30 Disney. Ci sono anche il Cine Oktober Fest, la prima del NoirVember Fim Fest e tanto altro».
Cosa sogni in futuro?
«Non ho sogni, ho dei progetti in prospettiva che, se si realizzano bene, altrimenti niente; sono in divenire e mi sento di ringraziare Marilena Toscano, Carmelo Maiorca e Peppino Ortoleva con i quali curo delle bellissime iniziative, oltre a essere amici che mi danno tanto.
Ah sì, forse c’è una cosa che vorrei: che mio padre fosse fiero di me».