Ambiente & Turismo
Toxicily: il documentario sulla costa orientale siciliana martoriata dalle industrie

Toxicily, il documentario di Alfonso Pinto e Francois Xavier Destors sull’inquinamento ambientale e sanitario del polo petrolchimico tra i più grandi d’Europa vince la menzione speciale per il montaggio al Festival dei Popoli di Firenze. Prima della distribuzione in Francia e in Italia, ecco cosa ci ha raccontato il ricercatore, documentarista e fotografo palermitano Alfonso Pinto.
Ulivi e agrumeti illuminati dal sole, saline che riflettono il cielo, spiagge dalle acque limpide e siti archeologici che riposano tra la bellezza. Siamo nella costa orientale della Sicilia, un Faust impeccabile e puro torturato da un Mefistofele di ferro e acciaio che, anziché sputare fuoco, emette veleni e gas nauseabondi: il polo petrolchimico siracusano. Il complesso industriale tra i più grandi d’Europa, sorto a partire dal 1949 vicino le località di Priolo, Augusta, Melilli e Siracusa, nutrito del ricatto occupazionale, protagonista del documentario Toxicily. Un’opera realizzata a quattro mani dal regista francese Francois Xavier Destors e dal ricercatore documentarista e fotografo palermitano Alfonso Pinto, proiettata per la prima volta al Festival dei Popoli di Firenze 2023, dove ha ricevuto la menzione speciale per il montaggio.
Un lavoro iniziato nel 2019 e girato tra Augusta e Siracusa (una delle zone più sismiche d’Europa) fatto di ricerca, analisi di dati, inchieste e soprattutto di ascolto dei testimoni che vivono in quelle zone. Il documentario pone lo spettatore di fronte a luoghi desolati e dimenticati, in cui l’inquinamento delle raffinerie ha creato un’emergenza sia sanitaria con malattie e malformazioni, sia ambientale con l’inquinamento.
Visioni forti che accompagnano l’intento dei registi: far riflettere, mostrando il contrasto tra la bellezza del luogo e la distruzione e far emergere il sacrificio di un territorio voluto in nome del progresso che, a suo tempo, avanzava con lo slogan “Più ciminiere, più̀ benessere”. Un sacrificio, che però non riguarda solo quei luoghi quasi dimenticati e avvelenati dagli sversamenti, ma tutti noi. Ecco perché Toxicily è un ritorno al passato, per sorvolare il presente e non arrendersi al futuro di un ulteriore oltraggio ambientale.
A farci da guida in questo percorso è Alfonso Pinto.
Come arriva l’idea per Toxicily?
«In maniera particolare. Dal 2018, al 2022 ho lavorato come ricercatore a Lione nell’istituto universitario l’Ecole Urbaine de Lyon che si occupava di questioni ambientali e di Antropocene. Lì ho cominciato ad occuparmi di catastrofi ambientali, in particolare di inquinamento. L’istituto aveva come prerogativa anche quella di innovare i metodi di ricerca e le forme di restituzione. Quindi, ho cominciato a sviluppare questo progetto su Augusta dal nome Sicile Toxique, mettendo al centro le immagini. Poi, c’è stato l’incontro con Francois Xavier Destors, un regista che avevo contattato per altro film il quale, scoprendo questa ricerca, mi ha fatto “la proposta indecente” di realizzare un film. Ed ecco allora che nasce l’idea nel 2019 di realizzare Toxicily».
Che temi affronta il documentario?
«La questione dell’inquinamento ambientale e quella sanitaria sulle patologie legate all’inquinamento. Sin da subito abbiamo notato una discrepanza tra la gravità della situazione e il fatto che se ne parlasse poco. Io stesso, che sono di Palermo, fino a poco tempo fa non sapevo nulla o quasi dei problemi di questo territorio. Così, abbiamo svolto questa ricerca e ci siamo interrogati su come raccontarla. All’inizio pensavamo a un reportage o un’inchiesta, poi rendendoci conto che c’erano altri lavori del genere abbiamo scelto l’approccio cinematografico umano, concentrandoci esclusivamente sull’esperienza quotidiana di alcuni abitanti».
Durante le riprese in che condizioni verteva la costa siciliana dove sorgono le raffinerie?
«La cosa che più ci ha colpito è il silenzio. Una vera e propria omertà nei confronti dell’inquinamento e dei suoi effetti. La questione ambientale è più o meno nota a tutti, anche perché basta guardare il luogo per rendersi conto del problema. Nonostante questo, l’argomento resta tabù. La nostra scelta è stata quella di dare voce a dei soggetti che in un modo o nell’altro costituiscono una minoranza. Si tratta di persone che hanno preso coscienza e che si impegnano per la tutela della salute e dell’ambiente con forme e modalità diverse. La maggioranza dei loro concittadini ha un atteggiamento talvolta passivo, talvolta rassegnato o peggio preferisce far finta di nulla. Ovviamente, uno dei temi centrali è il fortissimo ricatto occupazionale che ancora oggi attanaglia questo territorio».

Ph. Alfonso Pinto – Il polo petrolchimico siracusano
Che atmosfera c’è nelle vicinanze del petrolchimico?
«La devastazione del paesaggio è evidente. Eppure, malgrado tutto, questo territorio riesce ancora ad esprimere bellezza. Siamo stati molto colpiti dal contrasto: raffinerie, puzza, terreni abbandonati, vecchie fabbriche in disuso, e poi mare, spiagge. Penso alle saline di Augusta, un luogo meraviglioso, ma che è contaminato e non fruibile; penso soprattutto alle rovine di Megara Hyblaea, un sito archeologico straordinario per tutta quanta la storia della colonizzazione greca della Sicilia, che però è letteralmente circondato dalle industrie, difficilmente raggiungibile e che versa in uno stato di semi-abbandono. Penso alla riserva naturale delle saline di Priolo, dove possiamo ammirare fenicotteri, aironi e tantissime altre specie… Anch’esso, circondato dalle industrie. Da geografo, la questione del paesaggio nel film è stata fondamentale; volevamo riuscire a trasmettere, prima di ogni altra cosa, il contrasto che caratterizza questo paesaggio».
Hai citato dei siti importanti vicino le raffinerie, come quello di Megara Hyblaea. Ma nelle vicinanze sorge anche la necropoli di Thapsos, uno dei più importanti siti protostorici siciliani. Com’è potuta accadere una cosa del genere?
«Quando metti piede in quella zona la prima domanda che ti viene è proprio questa: “perché proprio qui?”. Siamo nel secondo dopoguerra, arrivano i fondi del Piano Marshall e i governi democristiani ritengono che per combattere l’arretratezza del Sud occorra industrializzare. Inoltre, l’Italia in piena crescita, ha un disperato bisogno di petrolio. La Sicilia
ha una posizione perfetta: a metà strada fra Suez e Gibilterra, al centro della rotta marittima fra il vicino Oriente e l’Europa. A livello locale, il territorio a nord di Siracusa offriva dei vantaggi non trascurabili: la rada di Augusta era un porto naturale perfetto per le navi cisterna; la zona è ricchissima d’acqua dolce, elemento essenziale per la produzione petrolchimica; fino ad allora il territorio presentava un’economia legata al settore primario (agricoltura, allevamento, pesca) caratterizzata da pratiche latifondiste. La manodopera era docile e a basso costo».

Presentazione di Toxicily al Festival dei Popoli di Firenze
Quali sensazioni hai provato arrivando in quei luoghi desolati?
«Abbiamo passato mesi a girovagare per tutta la zona industriale. Era un mondo assurdo e a tratto misterioso. Ci siamo resi conto che neanche gli stessi abitanti la conoscevano davvero. Per loro si tratta ovviamente di un punto di passaggio. È lì; la vedono, ma in fondo tanti vorrebbero che non ci fosse. Ogni volta che mi inoltravo in mezzo alle fabbriche, in quelle strade abbandonate, piene di rifiuti, un vero e proprio wasteland, sentivo un misto di attrazione e repulsione. Una sorta di sublime tossico. Quello che più mi colpiva era il carattere mediterraneo. Colori e odori a me familiari, assumevano una forma nuova, inedita, industriale, tossica, post – apocalittica. Qualcosa, insomma che rompe veramente l’immaginario della Sicilia. Un regno dell’assurdo, rinforzato dal fatto che spesso e volentieri trovi coltivazioni e allevamenti proprio sotto le industrie. E allora non puoi che chiederti come sia possibile permettere di produrre cibo da quelle parti; cibo che, peraltro, non resta certo lì».
Avete ascoltato delle testimonianze. Chi sono queste persone e cosa ti ha colpito dei loro racconti?
«Non saprei da dove iniziare. Come ho detto, siamo partiti persone che in diversi modi resistono e cercano di attirare l’attenzione sul problema. E ognuno lo fa a suo modo, in maniera talvolta contraddittoria. Penso ad uno dei nostri personaggi che per tutta la vita ha lavorato in raffineria, ma che allo stesso tempo militava in un’associazione ambientalista cercando di far convivere queste due cose. Poi ci sono le malattie, la morte.
Storie di illusioni, ma anche storie di chi in piena coscienza ha accettato i rischi riuscendo a costruire una famiglia e un avvenire, che ha mandato i figli all’università grazie ai salari delle raffinerie. Non so per quanto ancora si potrà dire che il petrolchimico ha costituto un’opportunità per migliorare la propria condizione, per non emigrare. Un’altra cosa che ci ha colpito è il coraggio di alcuni abitanti, i quali non soltanto si trovano a vivere un’emergenza ambientale e sanitaria, ma anche l’ostilità dei loro stessi concittadini che li accusano di volere rovinare l’economia e cacciare le industrie, senza rendersi conto che le loro rivendicazioni sono davvero il minimo sindacale, il rispetto per l’ambiente, per le leggi sulle emissioni, e soprattutto le bonifiche ambientali che non sono mai state fatte».
Quali sono le malattie riscontrate nelle persone che abitavano nelle vicinanze del petrolchimico?
« Su questo argomento invito a consultare il Rapporto Sentieri che, regolarmente, registra la situazione sanitaria nei territori classificati S.I.N. (Siti di Interesse Nazionale) in Italia. E sono tanti purtroppo. All’inizio delle mie ricerche ho voluto comprendere a fondo questa questione contattando direttamente i ricercatori che avevano lavorato a questo rapporto. Nel territorio si riscontrano eccessi per quanto concerne tumori all’apparato respiratorio, all’apparato uro – genitale. Si notano ugualmente eccessi in patologie specifiche come, ad esempio, il mesotelioma pleurico legato all’amianto, materiale largamente usato nelle industrie e, addirittura, lavorato in loco dalla fabbrica Eternit Siciliana per più di 30 anni.
A Priolo in particolare sono stati riscontrati eccessi nelle malformazioni congenite. Un’esperienza sicuramente toccante è quella del cimitero di Augusta dove un’intera sezione concentra le tombe dei nati morti o comunque di neonati che hanno vissuto solo pochi mesi. La cosa più brutta è che percorrendo tutto il cimitero, ti rendi conto che ce ne sono tanti altri mischiati ad altri. Non ho mai visto nulla del genere. Vedi tutte quelle lapidi, talvolta anche senza fotografia, dove data di nascita e morte coincidono, o sono parecchio ravvicinate».

Ph. Alfonso Pinto – Uno scorcio del polo industriale siracusano
Che effetti ha avuto, invece, l’inquinamento su flora e fauna e quali sono le sostanze dannose che vengono sversate?
«Anche su questo argomento mi permetto di rinviare allo studio CISAS realizzato dal C.N.R. Uno dei problemi più emblematici è il mercurio presente nella rada di Augusta. Si parla di milioni di tonnellate di sedimenti farciti di mercurio e altri metalli pesanti che, per via delle regolari operazioni di dragaggio, finiscono inevitabilmente nel Mediterraneo. Il mercurio ha un’origine precisa. È il risultato dell’attività dell’impianto Cloro – Soda che produceva fertilizzanti sino agli anni ’90.
Legambiente ha calcolato che nel periodo di attività la fabbrica avrebbe sversato più di 600 tonnellate di mercurio. Per avere un’idea, a Minamata (Giappone), dove negli anni ’60 scoppiò uno dei più noti casi di avvelenamento industriale (da allora l’avvelenamento da mercurio viene chiamato proprio Sindrome di Minamata), si stima che furono sversate circa 400 tonnellate di mercurio. Qui siamo a 600. Sulla fauna sono state osservate malformazioni soprattutto nei pesci. Per il resto, la zona industriale continua ad ospitare numerose specie, soprattutto uccelli migratori, ma non so se esistano degli studi in merito allo stato di salute della fauna».
«Non basta sapere che una fabbrica inquina per liberare un lavoratore dal ricatto occupazionale»; scrivi sul tuo account Instagram. Come potrebbe avvenire la liberazione?
«La frase è di Marco Armiero, uno dei più importanti esponenti del pensiero ambientalista italiano. Il problema del ricatto occupazionale è molto complesso. Noi sappiamo il motivo per cui molte persone accettano, ma bisogna porsi delle domande. Bastano alcune cifre: nel massimo momento di espansione (fine anni ’70 e inizi ‘80) questo era il polo più importante d’Europa e c’erano 20.000 famiglie che facevano girare un’intera economia; oggi, siamo sotto i 10.000 che, comunque, resta una cifra importante.
Il problema è stata la logica verticale e, in un certo senso coloniale. In altre regioni italiane a tradizione industriale, le industrie hanno sicuramente creato danni all’ambiente e alla salute, ma hanno inevitabilmente creato uno sviluppo più generale. A Siracusa, tutto si svolge in modo verticale. L’unica compensazione offerta è stata il salario. Per il resto, i profitti sono sempre andati altrove. Cosa fai allora se le industrie vanno via? Quali alternative si sono create in questi decenni? Nessuna. Difficile immaginare il turismo in un luogo contaminato e dominato dalle ciminiere. E chi pulisce? Chi paga le bonifiche (almeno quelle che sono tecnicamente possibili)? Lo stesso discorso vale per un eventuale ritorno all’economia primaria, all’agricoltura, alla pesca, all’allevamento. Tutto è contaminato. Anzi, ritengo che si dovrebbe intervenire nel territorio per impedire che si producano beni alimentari che, inevitabilmente, finiscono sul mercato spargendo veleni.
Il ricatto occupazionale in questi termini diventa una sorta di schiavitù. Una buona parte degli abitanti e delle classi dirigenti locali vive ancora in uno stato di vero e proprio asservimento. Non si riesce a esigere neanche il minimo sindacale: il rispetto delle normative sull’ambiente, servizi decenti, investimenti per un territorio che davvero sembra uscito da un film post -apocalittico. Ho visto alcune scuole di Augusta, Priolo e Melilli che versano in condizioni disastrose. A Priolo c’erano le scuole fatte con l’amianto; Augusta è una città bellissima con un patrimonio architettonico importante, ma versa in uno stato totale di abbandono. Per non parlare degli ospedali: in un posto dove c’è un’emergenza sanitaria certificata, l’ospedale di Augusta da anni subisce riduzioni di budget e chiusure di reparti, per cui le persone sono obbligate a viaggiare e spostarsi.
Ecco cosa intendo per schiavitù. Accettare tutto questo. Non essere capaci di rivendicare una qualsivoglia forma di compensazione per i danni subiti che vada oltre il semplice salario. Sono pochi e sono coraggiosi quelli che ci provano. Troppo spesso, si sente dire da tanti esponenti della politica e della società civile che questo territorio ha ormai “una vocazione industriale”, come se ci fosse un luogo sul pianeta che per sua stessa natura sia destinato alla distruzione. Anziché parlare di riconversione, di bonifiche, di alternative, si cerca di sviluppare l’industria.
L’ultimo esempio è quello del deposito GNL che pone dei problemi non tanto in termini ambientali, quanto in merito all’ulteriore rischio che un’attività del genere andrebbe a costituire in un territorio fra i più sismici del continente e dove, probabilmente, non si sarebbero dovuti costruire impianti a rischio come quelli petrolchimici. In termini pratici, l’unica soluzione che vedo è la nazionalizzazione. Nazionalizzare tutto e destinare tutti i profitti ad un progetto a medio termine di riconversione, alle bonifiche e soprattutto a forme di compensazione socio – economica che riguardino tutti gli abitanti. Sembra utopia, ma non lo è. Il problema è che viviamo in un contesto economico e politico e globale che ha scelto di andare in tutt’altra direzione».

Ph. Alfonso Pinto – Il polo petrolchimico siracusano
Si poteva evitare lo scempio? E in che modo?
«Si sarebbe potuto pianificare meglio. Vero è che negli anni ’50 mancava la sensibilità ambientale. Ma chi dirigeva le cose sapeva. Non esito a definire “coloniali” le modalità con le quali si è sviluppato questo polo petrolchimico. Nessun criterio, nessun ragionamento sull’impatto ambientale e paesaggistico. Le fabbriche sono sorte come funghi, una accanto all’altra. Sono arrivati da lontano fregandosene di tutto e tutti. Anche perché le classi politiche locali, tutti coloro i quali avevano il dovere e il potere di vigilare se ne sono fregati. Anche quando negli anni ‘60 in Italia cominciano a svilupparsi le prime normative sulle emissioni inquinanti, immediatamente questo territorio riesce a ottenere deroghe. Per un lungo periodo, il monitoraggio dei dati ambientali sulle emissioni veniva affidato direttamente alle industrie: controllori e controllati erano le stesse persone; il che è ovviamente un’assurdità.
Bisogna aspettare la fine degli anni ‘70 perché si cominci a dire che, forse, qualcosa non è andato come doveva. Inoltre, alla questione dell’inquinamento delle raffinerie si aggiunge il problema dei rifiuti tossici, sia quelli prodotti in situ e sepolti ovunque, sia addirittura quelli, forse, venuti da fuori. La sensazione è davvero quella che ci si trovi di fronte a un territorio che alcuni hanno considerato e considerano una gigantesca pattumiera. Un esempio di come in questi decenni le cose non siano poi cambiate così tanto è quello del depuratore consortile, cioè di un impianto che dovrebbe trattare tutti i reflui industriali. Nel 2021 la procura di Siracusa ne ha disposto il sequestro avviando un’inchiesta per gravi reati ambientali. Ci si è resi conto che nell’indifferenza generale quell’impianto non funzionava, era inadeguato sin dall’inizio e per anni tonnellate e tonnellate di reflui non trattati sono stati scaricati in mare. Stiamo parlando del presente, di oggi, non degli anni ‘70».
Che tipo di messaggio volete lanciare e quali domande volete suscitare con questo documentario?
«Le mie ricerche, negli ultimi anni, si sono concentrate sul disastro industriale concepito non solo come il grande incidente che fa il botto (come Chernobyl), ma anche come situazioni che in silenzio, in un tempo molto più lungo, fanno talvolta più vittime. Siamo partiti da questo rapporto tra una certa idea “pervertita” di progresso industriale e quella che l’industria avrebbe portato benessere. Ma alla base c’era l’Antropocene. Volevamo indagare il problema ambientale da un altro punto di vista.
Per quanto riguarda la situazione locale, abbiamo cercato di raccontare le contraddizioni di un’impresa industriale che ha distrutto tanto, ma che ha portato anche una certa forma di benessere. Allora, non possiamo che chiederci qual è stato il prezzo pagato. Forse le cose potevano andare diversamente. Quanto durerà ancora? Quante generazioni profitteranno di un lavoro stabile? Perché è ovvio che il polo un giorno chiuderà. Del resto, la logica degli idrocarburi è destinata a finire. Ecco, da questo punto di vista il territorio a nord di Siracusa è per noi una sorta di metafora di alcune problematiche che riguardano l’intera umanità confrontata all’impietoso bilancio di due secoli di industrializzazione. Abbiamo messo l’inquinamento ad Augusta, a Priolo, e in tanti altri posti, convinti che sarebbe rimasto lì senza muoversi. Invece, l’Antropocene ci sta dimostrando impietosamente che questa logica sacrificale non funziona. Sono problemi che ormai riguardano tutti.
Uno dei temi che abbiamo portato avanti è proprio quello del sacrificio: in nome di un interesse collettivo, considerato superiore, si sacrifica un’intera popolazione. E invece non è così. È il senso del cambiamento climatico e della crisi ambientale a scala planetaria. È qualcosa che ci toccherà pagare prima o poi. Durante le riprese nell’ottobre 2021 la zona di Augusta e Siracusa è stata vittima del famoso Medicane, l’uragano mediterraneo, fenomeno nuovo e molto violento che abbiamo vissuto di persona; così come lo stesso anno a Floridia, luogo nelle immediate vicinanze del petrolchimico, è stato registrato il nuovo record di temperature europeo di 49° gradi. Da questo punto di vista, non esito a considerare questo territorio come un vero e proprio hotspot dell’Antropocene».
Dove potremmo vedere questo documentario?
«Al momento, la distribuzione sta lavorando per far circolare il film nei festival. Superata questa prima fase, Toxicily uscirà nelle sale francesi a metà 2024. In Italia, la RAI lo ha acquistato, ma non sappiamo ancora dove e quando sarà diffuso. Certamente a breve il film sarà proiettato in Sicilia, laddove tutto è nato, ma ci piacerebbe farlo vedere in tutte quelle zone che vivono in prima persona il problema ambientale. Penso a Taranto, a Milazzo, a Gela, a Marghera, a Porto Torres, giusto per fare qualche esempio.
Una cosa è certa: siamo convinti che questo film debba avere un percorso militante in merito alle questioni legate alla giustizia socio – ambientale. A parte questo, ci interessa molto anche l’ambito della ricerca universitaria, perché è bene ricordare che questo progetto nasce come un percorso di ricerca, con l’intenzione di sondare le possibilità del cinema documentario, di trasmettere riflessioni e contenuti che si apparentano alle pratiche di ricerca in geografia, sociologia, antropologia e anche storia ambientale».