Diritti umani
Si continua a parlare di reati culturalmente orientati

Gli ordinamenti giuridici dei Paesi d’origine di molti degli immigrati non prevedono parità di trattamento e garanzia per donne e bambini.
di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus
La recente cronaca italiana ha riportato, per l’ennesima volta, un caso di violenza e prevaricazione verso minorenni (nella maggior parte dei casi contro ragazze) per il quale si è fatto riferimento, in senso lato, a motivazioni di tipo etnico-culturale. Sovente risulta usarsi una definizione di reato culturalmente motivato (ad es.: C. Maglie, I reati culturalmente motivati, Edizioni ETS) che risulta viziata da alcune distorsioni: 1. Si tende a contrapporre gruppo etnico di minoranza a cultura dominante; 2. Con ciò si prefigura una relazione di probabile sfruttamento e, appunto, dominio; 3. Si ignora che quanto è minoritario in un luogo può essere maggioritario altrove, e ciò non implica rapporti di dominio e manipolazione; 4. Nella maggior parte dei casi gli immigrati non sono costretti a restare in un Paese del quale non condividono norme e valori. Per portare un esempio storico, i milioni di immigrati italiani presenti in Argentina, Venezuela, Stati Uniti, Belgio, Germania e tanti altri Paesi, non risulta abbiano diffusamente accusato il Paese ospitante di avere una cultura dominante e manipolatrice rivendicando deroghe giuridiche basate sulla propria differenza etnica e sui propri usi tradizionali.
Sarebbe invece più giusto porre particolare attenzione al rapporto tra questo tipo di reati detti “culturalmente orientati” e i diritti di donne e minorenni. La disciplina di tali reati può infatti risultare pregiudizievole proprio per donne e minori, poiché gli ordinamenti giuridici della maggior parte degli immigrati accolgono una concezione di famiglia patriarcale che danneggia donne e minori o, quanto meno, ne limita l’autonomia. Ad esempio, si puniscono in modo leggero gli omicidi e le lesioni provocati dal marito alla moglie per punire il suo adulterio e si ammette lo ius corrigendi tra marito e moglie e tra padre e figli, si impongono matrimoni alle donne, si richiede la MGF per le bambine, ecc. Inoltre, gli ordinamenti giuridici dei Paesi d’origine di molti degli immigrati non prevedono parità di trattamento e garanzia per donne e bambini. Infine, tollerare o punire in modo attenuato questi comportamenti, significherebbe ridurre la funzione preventiva della norma, consentire interpretazioni vaghe nella stessa definizione dei reati, ridurre la determinatezza e la universalità delle sanzioni e delle norme. Implicherebbe, inoltre, ridurre la laicità e neutralità delle norme di diritto aprendo a coloro che commetterebbero reati “attenuati” per motivazioni religiose. Queste eventualità non tutelano sufficientemente tra le principali vittime di alcuni di questi reati, cioè donne e bambini.
In presenza di reati specifici, il riferimento a possibili reati culturalmente motivati è del tutto improprio e risulta più un tema mediatico (o politico-ideologico) che non strettamente giuridico o sociale. L’esigenza di riconoscere i costumi e le usanze proprie di alcune culture differenti dalla nostra e il dover rispettare i beni e i diritti fondamentali codificati dall’ordinamento costituzionale italiano non sono in contrasto, se non nella malevola intenzione di aprire varchi artificiali e inopportuni che consentano di aggirare le norme e vantaggio di tradizioni estranee alla nostra storia giuridica e in particolare ai principi di rispetto dei diritti umani fondamentali. Appare quindi volutamente divisivo quando si agita, da parte di alcuni, lo spauracchio della discriminazione culturale o etnica, si tratta invece di estendere la tutela dei diritti fondamentali anche a chi non ne ha mai goduto.
In alcuni casi, poi, tale motivazione culturale è stata invocata in maniera strumentale da stranieri, ben integrati nel Paese ospitante, al fine di vedere attenuata la severità della sanzione, se non esclusa la punibilità. Giustamente, in tali casi la condotta criminosa dovrebbe ritenersi addirittura aggravata dalla intensità del dolo dell’agente, con la conseguenza che sarà prima compito della pubblica accusa valutare non solo se le motivazioni che lo abbiano spinto a delinquere siano abiette o futili ma anche se vi sia la malevola esplicita intenzione di svilire le norme e i valori del Paese ospitante per rimarcare la presunta superiorità delle proprie tradizioni. Va anche detto che, più volte, una motivazione non esplicitata ma che alimenta confusione, si riferisce ai valori religiosi i quali, notoriamente, si è soliti porre al di sopra di quelli giuridici e morali correnti. Anche all’interno della cultura italiana ed europea alcune posizioni invocano una sorta di area privilegiata nella quale collocare ciò che si può collegare all’ambito religioso (comportamenti, valori, azioni, ecc.) e che non dovrebbe essere assoggettato meccanicamente alle norme vigenti, poiché, come direbbe qualcuno, la giustizia umana non può competere con quella divina.
Per quanto tale obiezione possa avere un senso etico, nella prassi sociale può ingenerare pericolose fratture, poiché sarebbe difficile rilevare in che misura la violazione di un diritto fondamentale sia giustificata, o giustificabile, da norme ispirate ad una religione. E poi, in che misura tali comportamenti siano diretta ”volontà divina” e non piuttosto una interpretazione umana (e storica) di un principio etico religioso trasposto in regole perfettibili. Sarebbe un procedimento impossibile da realizzarsi, che alimenterebbe dispute teologiche, antropologiche e anche giuridiche per quei Paesi nei quali il diritto discende da, e segue le, norme religiose.
La Corte di Cassazione si è più volte pronunciata in materia, ribadendo la priorità del rispetto dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale e presidiati dalle norme penali. Così, ad esempio, con la pronuncia n. 30538 del 4 agosto 2021, per il pagamento del “prezzo per la sposa” che, a partire dal matrimonio, sarebbe “appartenuta” alla famiglia dello sposo (entrambe della comunità Rom). Si tratta di una usanza ben nota agli antropologi ed etnologi ma che certo non per questo motivo va tutelata e giustificata. Il Collegio della Cassazione aveva ritenuto – conformemente alle precedenti pronunce – di dover escludere in radice la configurabilità di una causa di giustificazione di matrice culturale (c.d. scriminante culturale). La posizione del Collegio deriva dall’adesione al semplice e lineare approccio costituito dal bilanciamento tra il diritto (inviolabile) a non rinnegare le proprie tradizioni (culturali, religiose, sociali) ed i valori offesi o posti in pericolo dalla condotta.
Analizzando la questione dall’angolo prospettico così specificato, va esclusa la configurabilità di una “scriminante culturale” in tutti quei casi in cui l’esercizio del diritto dell’agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario si traduce nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale e presidiati dalle norme penali violate. Ovvero, le proprie convinzioni religiose, per quanto ferree e condivise, non scriminano quelle condotte che si pongono in contrasto degli ordinari principi posti a tutela degli individui. Anche con la sentenza n. 49306 del 22 novembre 2022 (depositata il 28 dicembre 2022), della terza sezione penale della Cassazione, la Corte si era pronunciata in tema di “reati culturalmente orientati”, ribadendo il consolidato orientamento giurisprudenziale posto a tutela dei diritti protetti. In particolare, la Cassazione si era occupata di delineare puntualmente il discrimen tra il reato ex art. 572 del c.p. e quello di abuso di messi di correzione, disciplinato dall’art. 571 del c.p.. La questione giuridica sottoposta all’attenzione dei Giudici riguardava particolarmente l’incidenza, nella qualificazione del fatto, della nazionalità degli imputati e del loro credo religioso. La Cassazione ha prima ribadito il significato di correzione, sintagma ripreso dall’art. 571 c.p., secondo l’interpretazione comunemente data dalla giurisprudenza di legittimità, il termine correzione deve essere correttamente interpretato come sinonimo di educazione. Per l’effetto, l’uso della violenza non può mai essere finalizzato a scopi educativi e ciò per diversi motivi: da un lato, il primato che l’ordinamento attribuisce alla persona umana, essendo la Costituzione una carta individualistica e personalistica; dall’altro, per la tutela del minore, passato dall’essere un oggetto di tutela al diventare un soggetto titolare di diritti. Non ultimo, la Corte ribadiva come la violenza sia totalmente diseducativa in quanto con essa non è possibile perseguire un armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza e di solidarietà.
Ciò posto, è chiaro che l’eccesso di mezzi di correzione violenti non è suscettibile ad essere ricompreso nel perimetro applicativo dell’art. 571 c.p., in quanto l’impiego sistematico di violenza quale ordinario trattamento del minorenne, anche là dove fosse sostenuto da animus corrigendi, integra il più grave delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p.. La difesa dell’imputato aveva lamentato la mancata derubricazione del reato di maltrattamenti in quello di abuso dei mezzi di correzione, in quanto le condotte erano maturate in un clima frutto della rigida cultura degli imputati (egiziani). Ad avviso della Corte la nazionalità e la religione degli imputati, con tutto il corollario applicativo di credi, convinzioni e principi su cui si basano, non valgono in nessun caso a scriminare ex art. 51 del c.p. il soggetto agente, come non vale a scriminare l’agente dal reato ex art. 572 c.p. non potendosi avallare condotte ex art. 572 del c.p. in quanto in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano tutelati dalla Costituzione. L’art. 29 Cost. in combinato disposto con l’art. 2 Cost. tutela infatti la personalità dell’uomo in ogni cellula sociale in cui dispiega la propria attività. Corollario applicativo di tale impostazione sono proprio i reati posti a tutela della famiglia che, nell’ormai orientamento consolidato della Cassazione, tutela non più il nucleo familiare in una concezione pubblicistica ma i diritti individuali delle persone che compongono la famiglia, che vedono tale luogo come primo posto di sviluppo della personalità e presidio dei diritti inviolabili.
Ancora precedente, la decisione della Corte di Cassazione (sentenza n. 29613 del 29.01.2018 depositata il 02.07.2018) relativo ad una famiglia albanese nella quale il padre aveva ripetutamente compiuto atti definibili come sessuali con il figlio, atti che erano stati considerati in precedenti giudizi solo espressione culturale tipica di quella comunità e quindi “non costituenti reato”. Secondo la Cassazione, pur ribadendo che nella valutazione delle fattispecie delittuose commesse sulla base di una giustificazione culturale, sia necessario un approccio analitico ed esegetico che risenta del “momento storico, del mutamento dei costumi e del sentire sociale più che di una tralatizia ripetizione di concetti”, se le norme penali risentono del contesto cui sono inserite ai fini della loro interpretazione (in questo caso il multiculturalismo) non si può, in un giudizio di bilanciamento tra principi sanciti a livello ordinamentale, introdurre prassi, tradizioni e consuetudini che siano contrari ai diritti inviolabili dell’uomo. Situazioni giuridiche soggettive, di cui al combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Carta Costituzionale, che devono essere riconosciuti a ciascun individuo, indipendentemente dalla etnia o razza cui appartenga, ed a prescindere dal contesto sociale di provenienza. Allorché le vittime di violenza sessuale siano minori, nel caso di specie il bambino era infraquattordicenne, la tutela del benessere e incolumità fisica risulta intangibile a prescindere da un eventuale consenso prestato. Nello specifico, la Cassazione annullò quindi le precedenti sentenze assolutorie della Corte di Appello.
Analogo il modello della tolleranza/mitezza, formulato da Zagrebelsky (ne “Il diritto mite” del 1992), per il quale se il soggetto commette il fatto perché appartenente ad un determinato gruppo culturale, l’ordinamento giuridico reagisce con un alleggerimento sanzionatorio sottoforma di esimente o di attenuante, purché il fatto non leda beni ed interessi fondamentali ed intangibili dei non appartenenti all’gruppo culturale ma anche degli appartenenti al gruppo culturale. Tale modello non deve produrre prerogative speciali che comportano una disparità di trattamento lesiva del principio di uguaglianza, ma deve produrre una valorizzazione delle differenze coerente con il principio di uguaglianza. Tale modello, che risulta di difficile realizzazione legislativa, comunque non travalica la difesa dei diritti umani fondamentali. Si pensi ai reati connessi a violenze compiute in famiglia, al reato per difendere l’onore della famiglia o del gruppo di appartenenza, al reato di riduzione in schiavitù potenzialmente giustificabile dalle antiche consuetudini, al reato di mutilazione di genitali e di deformanti tatuaggi ornamentali potenzialmente giustificabile dalla tradizione, al reato di rifiuto di mandare a scuola i figli potenzialmente giustificabile da riserve di tipo culturale, al reato di terrorismo internazionale potenzialmente giustificabile dal credo religioso. Nei casi concreti in cui il movente culturale viene in rilevo, ci si accorge trattarsi di tutte fattispecie erette a tutela di diritti umani inviolabili, comprendendosi, dunque, che l’orientamento della Cassazione sopra esposto finisca con il rendere nella prassi inapplicabile il movente culturale quale elemento impeditivo del sorgere della fattispecie penale.
Infine, i reati culturalmente orientati non solo danneggiano direttamente le vittime, ma hanno anche un impatto significativo sulla coesione sociale. La paura, la sfiducia e la segregazione possono minare il tessuto della società, ostacolando la collaborazione e la comprensione reciproca. Inoltre, tali reati possono alimentare un ciclo di violenza, portando a rappresaglie e tensioni crescenti all’interno della comunità o tra comunità e gruppi, alimentando stereotipi e discriminazioni, innescando rivendicazioni dai confini fluidi.