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Omicidio Parretta, a Salvatore Gerace ergastolo confermato in Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato il 16 novembre l’ergastolo per Salvatore Gerace, colpevole della morte del 18enne Giuseppe Parretta assassinato a colpi di pistola il 13 gennaio 2018 a Crotone. Una vicenda che apre uno spaccato anche sulla vittimizzazione subita da chi in Tribunale cerca giustizia.
“Con la sentenza definitiva giustizia è fatta”, afferma Caterina Villirillo madre del compianto Giuseppe Parretta. “Ma alcuni punti della vicenda restano oscuri…avevo ricevuto diverse minacce prima dell’omicidio di mio figlio” spiega la Villirillo alla nostra redazione
Con la condanna definitiva all’ergastolo in Cassazione di Salvatore Gerace, sentenza del 16 novembre scorso della suprema Corte a Roma, si può mettere la parola fine, aggiungendo che giustizia è stata fatta, al caso doloroso e tragico dell’omicidio del giovane 18enne Giuseppe Parretta, assassinato dal Gerace il 13 gennaio 2018 nella sede dell’associazione Libere Donne a Crotone, presieduta dalla madre Caterina Villirillo.
Il ricorso in Cassazione, rigettato totalmente dai giudici, era stato presentato a seguito di ben due condanne all’ergastolo in primo grado ed in appello, dai legali di Salvatore Gerace che miravano ad annullare l’aggravante della premeditazione, riconosciuta in primo grado dalla Corte d’Assise di Catanzaro secondo la quale “l’omicidio volontario con premeditazione era “chiaramente desumibile” dai mezzi usati (revolver), dal numero di colpi sparati verso zone vitali, dalla loro esplosione in rapida successione puntando a ferire la vittima, unico maschio in casa, per ridurre le sue possibilità di reazione e dalla dinamica del colpo di grazia”.
Per quanto risulta dalle tesi dei legali riportate nei tre gradi di giudizio, il Gerace dedito al malaffare e allo spaccio di droga ed inserito in una organizzazione criminale del crotonese, era ossessionato dall’idea che Giuseppe Parretta lo spiasse per riferire poi i suoi movimenti a fantomatici individui che avrebbero voluto assassinarlo.
Per questo il 13 gennaio del 2018, vedendo dalla sua abitazione, prospiciente la sede dell’associazione Libere Donne presieduta da Caterina Villirillo madre del ragazzo, arrivare il giovane alla guida di una moto nuova, e pensando che il mezzo fosse stato acquistato con i soldi che Giuseppe aveva ricevuto per averlo spiato, Gerace con una pistola in pugno entrò nella sede dell’associazione e sparò contro Giuseppe, intervenuto per proteggere madre e fratelli, prima ferendolo e poi finendolo con un colpo al cuore da distanza ravvicinata.
Un delitto orrendo cui assistettero anche la sorella Benedetta ed il fratellino Paolo, ambedue ancora minorenni, e purtroppo, oltre la madre Caterina Villirillo, anche la fidanzatina dello stesso Giuseppe Parretta. Un cumulo di testimonianze che dopo ben 3 gradi di giudizio e oltre 4 anni di tempo, hanno portato alla condanna definitiva all’ergastolo di Salvatore Gerace, grazie anche al sapiente e minuzioso lavoro degli avvocati Emanuele Procopio e Jessica Tassone, poi sostituita da Vincenzo Nobile.
Un delitto che ha tutti i connotati della disgraziata opera della criminalità organizzata che in Calabria opera spadroneggia spesso incontrastata. Perché Caterina Villirillo con la sua associazione presta soccorso a donne sole, donne buttate in strada a prostituirsi, donne con figli che hanno bisogno di sostegno. E quindi al di là delle dichiarazioni processuali di Salvatore Gerace sorge un dubbio: a chi dava fastidio l’operato di Caterina Villirillo?
In effetti prima del 13 gennaio 2018 Caterina Villirillo, per come lei stessa racconta alla nostra redazione, aveva dato disturbo a numerose cosche mafiose con il suo pronto intervento a favore di donne ricattate nelle loro fragilità e costrette allo spaccio di droga. In quel periodo l’autovettura della Villirillo era costantemente presa di mira per cui la stessa si era trovata spesso ad esporre denuncia contro ignoti per i danni subiti. Addirittura prima del delitto che ha visto la morte del figlio Giuseppe, un ordigno fu posizionato davanti all’ingresso dell’associazione Libere Donne, tanto da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine e di un artificiere. Successivamente ignoti penetrarono nei locali dell’associazione imbrattando i muri di escrementi, chiaro segnale di tipo mafioso.
La stessa Villirillo si rese utile durante una operazione dell’arma dei Carabinieri per la sua conoscenza di persone e luoghi del centro storico di Crotone, favorendo l’arresto di criminali dediti allo sfruttamento della prostituzione. Ed in effetti gli Enti del Terzo Settore, le associazioni, spesso nascono laddove esiste una carenza dello Stato, rendendosi partecipi dei problemi sociali e cercando di aiutare i propri simili più fragili a trovare soluzioni.
Bene dunque la condanna all’ergastolo di Salvatore Gerace, ma restano punti oscuri su questa vicenda che vede l’omicidio di un giovane che voleva solo proteggere la madre, nel timore che quella pistola impugnata dal Gerace fosse rivolta a bloccare le attività benefiche della stessa Caterina Villirillo. Madre coraggio che non ha mai ricevuto in questi quattro anni alcun aiuto dallo Stato e che ha visto la vittimizzazione di tutta la sua famiglia anche in Tribunale e senza alcuna assistenza psicologica da parte delle Istituzioni preposte.
Va ricordato infatti che Giuseppe Parretta, che contribuiva con il suo onesto lavoro al mantenimento dei suoi fratelli, Benedetta e Paolo, era il fratello maggiore in una famiglia priva della figura paterna, ed il calvario di quasi cinque anni di processo ha prodotto un ictus a Caterina Villirillo e tanto dolore ai due figli che al momento del delitto erano minorenni.
Ed ecco qualche frase della lettera che Benedetta Parretta ha inviato ai giornali il giorno prima dell’udienza in Cassazione:
“Partiti con il buio, com’è diventata all’improvviso la nostra vita, perché Giuseppe portava la luce attraverso il suo sorriso” scrive Benedetta Parretta il 15 novembre scorso.
“Viaggiamo verso Roma con mia madre e mio fratello per chiedere ancora una volta giustizia in Cassazione per l’omicidio di mio fratello…l’unica colpa per mia madre aver collaborato con la legalità e aver salvato gratuitamente tantissime vite che avrebbe dovuto salvare lo Stato. Fin da bambina ho sempre seguito mia madre nei suoi percorsi e nelle battaglie contro ogni tipo di violenza e di soprusi, dopo la morte di mio fratello mi sono trovata catapultata nel mondo degli adulti insieme a mio fratello Paolo, avevamo 16 e 12 anni…”
“Per il forte stress a due anni dall’omicidio mia madre ha avuto un ictus cerebrale con emiparesi destra, ma lei non si è mai arresa, io però sono dovuta diventare una mamma per mio fratello che per tre anni si è chiuso in sé stesso e rifiutava di parlare di Giuseppe e per mia madre che purtroppo non riusciva a fare nulla da sola, all’improvviso con tutto il mio dolore sono dovuta diventare la madre di entrambi”.
“…Il 2020/21 sono stati anni duri soprattutto perché ho dovuto affrontare durante il processo di secondo grado le aule e il carnefice di mio fratello sempre davanti gli occhi da sola, sostenuta dal mio avvocato… Di questa esperienza mi porto l’amarezza e la consapevolezza che le vittime di reato sono sole e che le istituzioni non esistono, e che non è vero che i minori che subiscono violenza hanno un supporto, sono solo chiacchiere… Ho intrapreso da due anni ormai il percorso di giornalista proprio per gridare al mondo intero che le vittime sono sole, senza diritti.
Ho scelto non la strada della vendetta, ma la strada della legalità!”
Oggi Benedetta Parretta è giornalista pubblicista, e siamo sicuri che saprà dedicare la professione a dare aiuto a chi è più fragile.