Diritti umani
Maysoon Majidi e le altre
Troppo debole e inefficace la difesa dei diritti umani delle donne nel mondo
di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus
La vicenda di Maysoon Majidi, la regista e attivista iraniana della minoranza curda, sbarcata in Italia e accusata di essere una scafista è oramai nota, anche se non ha attirato molto l’attenzione dei mass media. Si confida che verifiche più accurate dei contesti nei quali sono state raccolte alcune dichiarazioni accusatorie nei suoi confronti da persone sbarcate e poi scomparse, e le evidenze dei fatti, consentano ai magistrati che se ne occupano di rimediare a quello che appare come uno sfortunato equivoco che la ha condotta in prigione. Questa spiacevole vicenda, per la quale si potrà velocemente e concretamente intervenire, avviene sullo sfondo di ombre crescenti sulle condizioni delle donne in molti contesti internazionali. Partendo dall’Iran, dove continua la repressione della cosiddetta “polizia morale”, cui si associano arresti, condanne, torture.
Poi il limitrofo Afganistan, dove con le disposizioni più recenti operate dagli integralisti islamici si sono ampliati i divieti e la progressiva “cancellazione” delle donne, che non possono ridere ad alta voce, apparire sui balconi delle loro case e molti altri divieti per renderle invisibili, silenziose, passive esecutrici e analfabete. Regole che denotano una patologica mescolanza di misoginia, sessuofobia e sessuomania. Poi le sofferenze in Ucraina, per le donne che combattono al fronte e per quelle che subiscono bombardamenti e razionamenti quotidiani crescenti. In Palestina ed Israele, dove sono state oggetto di sequestri, violenze e rappresaglie e anche strumento di contesa mediatica tra le parti, per cui si evitano ulteriori specifici commenti.
Quindi le donne totalmente dimenticate, come le almeno duemila donne Yazide sequestrate e scomparse dal 2014 durante le cruente fasi di attività dei guerriglieri islamici dell’ISIS che pochissimi hanno il coraggio di ricordare. Le decine di migliaia di donne sudanesi, travolte da una sanguinosa guerra civile che sta letteralmente devastando quel Paese. Le donne armene del Nagorno Karaback, costrette a fuggire frettolosamente e ripararsi in Armenia per timore di pulizia etnica, evento purtroppo non nuovo per la comunità armena in generale.
Le stesse donne curde, come la citata Maysoon Majidi, che vivono l’emarginazione e divisione della loro comunità, considerata scomoda e sgradita sia in Turchia che in Iran. Le donne Rohingya dei campi profughi, ma anche quelle pakistane delle minoranze religiose, le donne albine africane, torturate e uccise perché accusate di stregoneria (in quanto albine), e l’elenco potrebbe essere ancora molto lungo. Una grande massa di violenza, emarginazione e discriminazione, soprusi spesso senza neppure un minimo di apparente giustificazione. A fronte di tutto ciò appare sorprendente che una parte dei movimenti femminili occidentali preferisca dedicare tempo ed energia alle desinenze maschili o femminili delle parole, alle quote di genere e ad altri aspetti che risultano decisamente meno legati alla vita o alla morte delle persone.
Lo stesso spirito, che dovrebbe fortemente animare la tutela dei diritti umani, risulta invece sfumato e flebile, come se i diritti fossero oramai acquisiti e definitivi. Traspare in ciò qualcosa di storicamente decadente e pericoloso.