Cinema & Teatro
Marco Simon Puccioni e Il filo invisibile: tra arte, diritti ed emozioni
Ognuno ha il suo gomitolo, unico e irripetibile da cui districare vicende, sensazioni ed emozioni; a mostrarlo a occhi e mente è il regista Marco Simon Puccioni con il film “Il filo invisibile” dal 4 marzo su Netflix.
Un filo impercettibile, che lega la propria anima a quella di altre durante il percorso di vita: dai genitori, agli amici, fino ai semisconosciuti. E anche quando si annoda o sfilaccia questo filo resiste, rendendo quei legami indissolubili. Ognuno ha il suo gomitolo, unico e irripetibile da cui districare vicende, sensazioni ed emozioni; a mostrarlo a occhi e mente è il regista Marco Simon Puccioni con il film “Il filo invisibile” dal 4 marzo su Netflix.
Una commedia degli equivoci su una famiglia omogenitoriale: Simone (Francesco Scianna) e Paolo (Filippo Timi) sono i due papà di Leone (Francesco Gheghi) 16 anni nato in California, grazie a Tilly (Jodhi May), che ha aiutato la coppia a farlo venire al mondo. L’adolescente, impegnato con l’amico a realizzare un breve video per la scuola sui diritti Lgbt in Europa, scoprirà quanti pregiudizi lo circondano e vivrà la sua prima storia d’amore, che nasce proprio quando emergono delle crepe profonde all’interno della sua famiglia. Un film diviso a metà tra mondo degli adulti e degli adolescenti con focus sulla genitorialità di una coppia omosessuale e sull’amore, file rouge che unisce tutti i personaggi.
Il filo invisibile è la prima commedia per il regista e sceneggiatore romano Marco Simon Puccioni, laureato in architettura a Roma e in cinema alla CalArts di Los Angles. Il suo percorso artistico è costellato di film, documentari e cortometraggi tra cui Quello che cerchi (2001), uno dei primi film digitali, nella cinquina dei David di Donatello come migliore opera prima; Prima di tutto (2012), la storia di come sono nati i suoi due figli, voluti insieme al marito, Come il vento (2013), Tuttinsieme (2020) sulla crescita dei due figli in una famiglia con due padri.
Dall’indole creativa, introversa e riservata, per Marco ogni opera scritta e girata è una parte di vita, un piccolo mondo su temi sociali incarnati da personaggi/persone, che fanno parte di minoranze. Ecco cosa ci ha raccontato questo regista e autore un po’ filosofo, con una personale lettura della realtà.
Tra i film e documentari girati, quale ti è rimasto più di tutti nel cuore?
«Il primo amore non si scorda mai: Quello che cerchi. L’opera prima ti rimane sempre dentro, perché inizi un’avventura e cominci a chiamarti più legittimamente regista. Vedi che il tuo discorso comincia ad essere interessante per il mondo e per gli altri. Ogni film caratterizza una parte della vita in cui mi identifico e che sento molto, perché ho sempre scritto tutte le sceneggiature».
Qual è l’aspetto più interessante dell’essere regista?
«Ce ne sono tanti. Intanto l’idea che hai creato un mondo. Un film è un mondo a sé stante con le sue regole e i suoi personaggi, ed è esaltante costruire questa realtà che rispetta quella in cui viviamo anche se è inventata; nel suo essere una “menzogna”, però, è vera. Per quanto riguarda l’aspetto pratico del lavoro, nasco più dall’immagine, dalla fotografia e se prima il piacere principale era creare e comporre immagini, oggi è lavorare con gli attori, riuscire a creare un personaggio e dare il meglio di sé».
Marco Simon Puccioni: Il filo invisibile e i pregiudizi sulla omogenitorialità
Il 4 marzo è uscito su Netflix “Il filo invisibile”. Com’è nata l’idea di questo film?
«Dalla voglia di raccontare cos’è la genitorialità in un film di finzione. Nasce dal percorso che abbiamo fatto io e mio marito e che ci ha costretto a chiederci: “Perché vogliamo diventare genitori? Perché è così importante? Perché siamo disposti ad attraversare l’Oceano per diventare genitori?”. Volevo affrontare questo tema con un film che sul piano narrativo ed emotivo potesse parlare a un pubblico più vasto rispetto ai documentari. Il mio approccio e la materia sulla genitorialità hanno trovato poi il gradimento di Netflix».
Nel film emergono pregiudizi sulle famiglie omogenitoriali: che sono sempre felici o che il figlio di una coppia gay deve esserlo a sua volta. Cosa vuol dire secondo te essere figlio in una famiglia gay?
«Come anche nelle famiglie etero, la sessualità dei genitori vive su un piano a parte; non è esposta ai figli. A volte, ci sono delle polemiche del tipo “I figli fanno quello che vedono fare ai genitori”; come se la preferenza sessuale derivasse dal comportamento dei genitori! Poi c’è anche la convinzione che “Se il padre fa così, allora anche il figlio lo fa”; su certi aspetti poi, sarà anche vero perché il comportamento umano tende a replicare. Ma la sessualità è sempre sfuggita a questa regola, altrimenti saremmo tutti figli di genitori eterosessuali e tutti eterosessuali. La preferenza sessuale difficilmente la scegli consapevolmente, è una cosa che senti e a cui, a un certo punto, devi dare spazio. Non la decidi tu, così come non decidi chi amare; certi sentimenti puoi reprimerli e contrastarli, ma vivi male».
Anche tu hai un marito e due figli. Qual è il pregiudizio sulla vostra famiglia che ti ha fatto più arrabbiare e quello che temi di più?
«Il primo pregiudizio è “Questi figli sono nati in un modo che non si conosce, in modo losco”, sfatato nei miei documentari e che mi potrebbe far arrabbiare nel momento in cui qualcuno pensa che questi figli sono stati concepiti in modo poco etico. Poi, c’è la questione dei diritti: i nostri figli hanno due genitori, non riconosciuti per legge. Se c’è legame genetico sei genitore, se invece non c’è è tutto da dimostrare; in Italia non danno l’adozione e non si riesce a formare un certificato con due persone dello stesso sesso. Una cosa che mi ha fatto arrabbiare è che per far passare la legge sulle unioni civili hanno dovuto togliere l’adozione del figlio del compagno.
I problemi nascono quando c’è la morte di uno dei genitori o la separazione, lì ti rendi conto che in qualche modo la legge dovrebbe intervenire con i diritti e se questi mancano ti trovi in situazioni come quelle del film, dove cerchi di far valere i legami di sangue».
A Vanity Fair hai dichiarato «I termini gestante e donatrice di ovuli sono troppo tecnici, non vanno bene per la vita quotidiana. E non si tratta né di mamme, né di zie. Per questo noi proponiamo un termine nuovo come “dede”. Citato anche nel film. Perché Dede?
«Quando il bambino inizia a parlare ripete due volte la stessa sillaba “ma”, “pa”; così abbiamo pensato di fare la stessa cosa con altre sillabe ed è venuto fuori “dede”. Poi, ho scoperto che in altre lingue, come il georgiano, è un termine con cui si dice mamma.
Dede, però, non è una mamma o una zia, ma una terza figura che ti ha cresciuto nella pancia, ti ha messo al mondo e lo ha fatto per qualcun altro. La mia aspirazione era che dede, come succede di termini sentiti in romanzi e film, potesse diventare un termine universale. Se a un certo punto nel nostro vocabolario esce fuori “dede” e tutti capiscono cos’è, allora non c’è più bisogno di spiegazioni e la società sa».
Nel film assistiamo anche al disagio del fratello di Anna di esprimere il proprio orientamento sessuale o alla vergogna di Leone ad abbracciare l’amico. Problematiche fronteggiate dai protagonisti con uno scatto di coraggio. Quanto è importante affrontare le situazioni e la vita con coraggio?
«È determinante, per far sì che la vita abbia un senso. Ognuno, a modo proprio, ha delle difficoltà, c’è chi pensa che un mio problema sia una sciocchezza e chi, invece una cosa enorme. Non è tanto questo che devi superare, quanto avere il coraggio di superare le proprie paure. Viviamo di tante paranoie e paure, riuscire a liberarsene è un grande passo. Questo è molto evidente nelle persone che hanno avuto incidenti e hanno handicap e, nonostante ciò, diventano degli atleti paralimpici; li ammiro molto. Non si buttano giù, lottano e hanno grandi soddisfazioni e vittorie. Questo, dice molto dello spirito umano e della sua grande capacità di reagire a situazioni sgradevoli; un po’ come quelle che architetti nel cinema per far rivelare al personaggio di che pasta è fatto».
I personaggi del film si confrontano con i loro sentimenti: dalla vergogna, all’amore al senso di colpa, fino alla mancanza e alla rabbia. Potremmo dire che, alla fine, in questo vortice di emozioni prevale il sentimento del perdono?
«Il perdono, che nasce dalla compassione: capire le difficoltà degli altri e che gli altri, in fondo, non intendevano fare del male, anche se hanno combinato un casino. Alla fine, anche perdonare è un’atra grande risorsa umana, concedendo all’altro il beneficio di sbagliare. Non identificare l’altro con il suo errore, ma vedere che è stato una parte di sé che ha fatto male agli altri e ciò non vuol dire che quella persona è intrinsecamente votato al male».