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Diritti umani

Il Consiglio Nazionale Forense – Commissione Diritti Umani interviene contro la discriminazione sui luoghi di lavoro

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L’intervento di Anna Maria Antoniazza al Consiglio Nazionale Forense – Commissione Diritti Umani – 25 Marzo 2021

Anna Maria Antoniazza, classe 1980, milanese di origine, laureata presso l’Università Cattolica di Milano, prima laurea in Economia e Commercio, seconda laurea in Giurisprudenza, specializzata in diritto delle tecnologie informatiche. Vive a Roma e lavora da oltre 17 anni come contract manager per una multinazionale. Nella vita privata si occupa attivamente di diritti umani per la Lega Italiana Diritti dell’Uomo.

Anna Maria Antoniazza, il 25 Marzo 2021 ha preso parte come relatrice al corso indetto dal Consiglio Nazionale Forense dal titolo “La non discriminazione nell’organizzazione dello studio legale. Esperienze dagli studi professionali e dalle aziende. – Divieto di discriminazione nei luoghi di lavoro per ragioni di orientamento sessuale, identità di genere o per origine etnica (Corte di Giustizia UE – Caso C-507/2018). Principi che si applicano anche ai rapporti fra gli studi legali ed i propri collaboratori ed in fase di accesso alla professione. Pratiche dirette ad evitare la discriminazione e promuovere l’inclusione.”

L’impegno delle aziende oggi nell’accelerare il raggiungimento delle pari opportunità per tutti non è mai stato così importante quanto oggi – per guidare l’innovazione e agire come leader responsabili.

Questo approccio ci consente di attrarre i migliori talenti, creando un ambiente che genera innovazione, permette alle nostre persone di crescere ed esprimersi al meglio e sostiene una cultura fondata sulle pari opportunità e sul senso di appartenenza.

Ciò che rende un’azienda o uno studio legale eccezionali è la diversità delle nostre persone. Ognuno ha punti di forza unici e solo valorizzando questi talenti è possibile interpretare il cambiamento, cavalcare le sfide del mercato, raggiungere alte performance. Ecco perché supportare la creazione di una cultura della parità deve essere un impegno collettivo.

Quando si parla di inclusione, le aree d’interesse si muovono a 360 gradi, riguardano genere, etnia, LBGTQ+, religione, persone con disabilità e diversità interculturale.

Indipendentemente da leggi di governo e regolamenti specifici di paese, deve essere un impegno concreto per le aziende e gli studi professionali, che si riflette in programmi e iniziative volti alla valorizzazione di differenze e identità di genere, orientamento sessuale, abilità, origine etnica, cultura, età e religione, e che punta a garantire un ambiente di fiducia, aperto equilibrato e inclusivo.

Con particolare riferimento alle tematiche LGBT+ (Lesbian, Gay, Bisexual, and Transgender), quali suggerimenti ha fornito?

Una cultura basata sulle pari opportunità e sul riconoscimento della diversità, della multidisciplinarietà e delle differenti storie e caratteristiche individuali è un fattore in grado di liberare creatività e generare innovazione e crescita. Solo valorizzando e includendo ogni talento è possibile interpretare il cambiamento, cavalcare le sfide del mercato e raggiungere alte performance.

La strategia aziendale dovrebbe declinarsi in ogni campo d’azione, con linee-guida e pratiche di recruiting, gestione del personale, formazione, network interno ed esterno, che contribuiscono alla creazione di un ambiente di lavoro fertile, aperto ed inclusivo per tutti.

La formazione dovrebbe essere realizzata su tutto il personale con particolare attenzione alla sensibilizzazione della leadership, attivando percorsi specifici sul tema LGBT+, con l’obiettivo di far crescere la consapevolezza sui vari aspetti della diversità stimolando un cambiamento di mentalità a favore dell’inclusività.

Ricordiamo inoltre che un’azienda o uno studio professionale sono espressione prima di tutto del loro sistema di valori che trovano espressione nelle azioni, comportamenti e decisioni quotidiane di tutti i dipendenti, in primis il “rispetto per l’individuo” che dovrebbe ispirare le policy aziendali e valorizzare il concetto di inclusività in tutte le sue espressioni, prevedendo policy specifiche che hanno l’obiettivo di rendere concreta l’inclusività promossa (ad esempio prevedendo la copertura ed accesso a benefici a dipendenti LGBT e relativi partner comparabili a quelli previsti per i dipendenti eterosessuali).

Un ulteriore aspetto da considerare è la creazione di una rete di “alleati”. Avere alleati informati, visibili e vocali è la chiave per superare le sfide e creare un ambiente inclusivo, che ispira la collaborazione ogni giorno. Un alleato è qualcuno che agisce per promuovere l’inclusione di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, identità ed espressione di genere.

Non da ultimo è necessario chiarire Guidelines per supportare e guidare al meglio il processo di transizione di dipendenti transgender, affinché tutte le parti coinvolte – HR, manager, clienti – siano in grado di supportare e gestire ogni parte di questo delicato momento.

L’inclusione migliora quindi la competitività?

Ci sentiamo più motivati, energizzati e ispirati a dare il meglio di noi stessi quando siamo circondati da un ambiente di lavoro inclusivo. Per questo è importante che anche nella vita personale, al di fuori dell’ufficio – in città, nella comunità – ci si senta allo stesso modo. L’inclusione, in ogni ambito della vita dei cittadini, contribuisce sostanzialmente alla crescita economica della società, generando di conseguenza migliori capacità d’innovazione e un miglioramento della qualità della vita.

Durante il suo intervento in particolare le è stato chiesto “In che misura la normativa italiana supporta la scelta di transizione?

La Prima Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15138/2015, ha stabilito che per ottenere il cambio di sesso all’anagrafe non è necessario l’intervento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali.

Gli Ermellini hanno accolto il ricorso presentato da una persona trans che rinunciando all’intervento, chirurgico, dopo l’ottenimento dell’autorizzazione, ha voluto comunque chiedere il cambio dello stato civile in ragione del fatto che, raggiunto un equilibrio psico-fisico, era ormai socialmente riconosciuta come donna.

I Giudici di primo e secondo grado a cui la persona si era rivolta, avevano respinto la richiesta del cambio sesso senza l’intervento chirurgico, aderendo entrambi alla prevalente giurisprudenza di merito che, fino a quel momento, subordinava la modifica degli atti anagrafici solo dopo il suddetto intervento.

Ma per la Cassazione  non può essere soltanto l’intervento chirurgico a determinare  la modifica dello stato civile, difatti, afferma che: “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale. Il momento conclusivo non può che essere profondamente influenzato dalle caratteristiche individuali”.

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