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L’incontro Juventus-Milan a Gedda mette in campo i diritti disattesi dallo Stato arabo

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Una scelta difficile quella di disputare la partita tra Juventus e Milan giocatasi ieri nello stadio di Gedda in Arabia Saudita, che ha evidenziato ancora una volta le violazioni dei diritti soprattutto delle donne in quel paese

di Vito Nicola Lacerenza

Si è conclusa 1-0 la partita di Supercoppa italiana tra Juventus e Milan giocatasi ieri nello stadio di Gedda in Arabia Saudita, luogo che, secondo alcuni osservatori, le due squadre hanno scelto per mettere in luce le contraddizioni del mondo arabo. L’incontro ha infatti suo malgrado  evidenziato la disparità uomo – donna in quel paese: le donne cittadine arabe hanno avuto accesso allo stadio per la prima volta, ma solo in zone a loro riservate escluse agli uomini.   Ultimamente l’Arabia Saudita ha concesso alle donne libertà fino a pochi anni fa inimmaginabili. Come la possibilità di guidare un’automobile, di andare al cinema o allo stadio e persino di aprire un’attività commerciale. Nonostante questi considerevoli passi avanti, però, la via verso la parità di genere è ancora tutta da percorrere, perché in Arabia Saudita vigono ancora la “leggi d’autorità”. Si tratta di norme ricavate da una rigida interpretazione del Corano, le quali mirano ad annullare le libertà sociali della donna, subordinandola a un membro della famiglia di sesso maschile: un padre, un marito, uno zio, un cugino o un figlio. Ad uno di loro le “leggi di autorità” riconoscono il ruolo di “guardiano”,  a cui spetta la facoltà di decidere per la donna, come se quest’ultima non fosse in grado di intendere e di volere. E poco importa se la subordinata sia adulta o abbia un determinato status sociale, per “le leggi di autorità”, una donna deve essere sempre dipendente da un uomo, finanche per compiere le più semplici mansioni quotidiane. Non esiste cittadina saudita che, nel proprio Paese, possa uscire di casa senza il permesso del guardiano, anche se in possesso di una patente di guida  e di un auto.

Questo costante stato di sudditanza pesa sulle riforme liberali volte all’emancipazione femminile. Ad esempio, nel 1960 l’Arabia Saudita ha concesso il diritto allo studio alle donne e, da qualche anno, ha stanziato ingenti risorse per permettere loro di studiare gratis, o quasi, nelle migliori università. Ma, a “causa delle leggi d’autorità”, le donne non possono iscriversi senza il permesso del guardiano, né  affittare un posto letto nel caso decidessero di studiare lontane da casa. La situazione peggiora ulteriormente nell’ambito lavorativo, dove una dipendente, per poter ricevere la busta paga dal datore di lavoro, ha bisogno di essere accompagnata dal guardiano, il cui potere diventa ancora più opprimente quando la propria subordinata esprime il desiderio di sposarsi. A quel punto la vita sentimentale della donna dipende da un semplice “si” o “no” del suo responsabile, ma solo se il pretendente in questione è di nazionalità saudita. Se fosse invece originario di un altro Stato arabo, la situazione diventerebbe più complicata e la promessa sposa sarebbe obbligata a presentare una richiesta formale al Ministero dell’Interno Saudita, il quale deciderà se concedere o negare l’ “autorizzazione alle nozze”. Va ricordato però che, per avviare la procedura burocratica, la donna ha bisogno di un permesso scritto del guardiano, al cui potere non è possibile sottrarsi senza finire in carcere per il reato di “disobbedienza”.

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