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La Cina domina i Paesi in via di sviluppo con investimenti miliardari

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I più esposti al potere cinese sono sopratutto gli Stati dell’Africa incapaci di restituire i prestiti ricevuti dal gigante asiatico. Il colonialismo cinese mostra chiari segni di razzismo.

di Vito Nicola Lacerenza

Nel 2015 la Cina ha lanciato il progetto “Belt and Road Initiative” (BRI), un piano triennale d’investimenti che ammonta a 60 miliardi di euro e coinvolge 68 Paesi in via di sviluppo, la maggior parte dei quali sono asiatici e africani. Le nazioni che hanno usufruito dell’immenso flusso di denaro hanno visto sorgere sul proprio territorio industrie e infrastrutture strategiche come porti, aeroporti, autostrade; hanno incrementato gli arsenali e visto salire l’occupazione a livelli record.  Ma tale sviluppo esplosivo, a dispetto delle apparenze, rischia di condurre i 68 Paesi del progetto BRI verso la bancarotta. I capitali cinesi non sono stai concessi a fondo perduto ma prestati con tassi di interesse alti. Per nazioni con economie fragili, come quelle incluse nel progetto  “Belt and Road Initiative”, riuscire a onorare il proprio debito è praticamente impossibile. A lanciare l’allarme è stata la Banca Mondiale con il Fondo Monetario Internazionale che hanno reso noto come, a causa degli investimenti cinesi, il debito pubblico di 23 Paesi si sia decuplicato nell’arco di due anni. Nel 2016 lo Sri Lanka è stato costretto a chiedere al Fondo Monetario Internazionale un prestito di 1.5 miliardi di euro per riuscire a pagare gli interessi dei prestiti ottenuti dalla Banca Nazionale Cinese. Lo stesso potrebbe ritrovarsi a fare il Gibuti, a cui la Cina ha prestato 1.4 miliardi di euro, ovvero il 75% del PIL della nazione africana. L’enorme ammontare di denaro prestato, se da un lato ha permesso a Gibuti di dotarsi di infrastrutture strategiche, dall’altro ha fatto aumentare il debito pubblico dell’85% nel giro di 2 anni. A trovarsi già in dissesto finanziario, a causa dei debiti con la Cina, è anche il Pakistan che ha dovuto avviare con il Fondo Monetario Internazionale un piano di salvataggio  economico a causa della crescita incontrollata del debito pubblico. Evitare la bancarotta è di vitale importanza per i Paesi indebitati, il cui fallimento autorizzerebbe la Cina ad espropriare le loro infrastrutture e risorse minerarie.

Un caso eclatante è quello dello Sri Lanka che con i fondi cinesi ha costruito la sua infrastruttura più importante, il porto di Hambantota. Schiacciato dai debiti finanziari, lo Sri Lanka è stato costretto a dare in concessione il porto alla Cina per i prossimi 99 anni. Una sorte analoga è toccata anche a Gibuti, il cui porto commerciale, il Doraleh Container Terminal, è attualmente gestito dai cinesi. Ma tra i 68 Paesi inclusi nel progetto “Belt and Road Initiatice” c’è ne uno che è riuscito a svincolarsi dalla “morsa” degli investimenti cinesi. È la Sierra Leone. L’anno scorso l’ex governo dello Stato africano ha chiesto alla Cina un prestito di 400 milioni di euro per costruire un aeroporto. Quest’anno però il nuovo presidente   Julius Maada Bio ha deciso di rinunciare al progetto. Ultimamente gli Stati dell’Africa nutrono diffidenza nei confronti della Cina, sospettata di voler far indebitare le nazioni economicamente più fragili per soggiogarle economicamente ed, inoltre è accusata di promuovere il razzismo nel continente africano, dove sempre più cinesi si stabiliscono per lavoro. Tutti gli asiatici vivono in quartieri residenziali separati dalla popolazione locale con cui, al di fuori dell’ambito lavorativo, non hanno alcun contatto. Inoltre dispongono di autobus che quotidianamente li accompagnano a lavoro o a casa. Persino nelle mense comuni, dove ognuno è libero di sedersi dove vuole, i cinesi evitano di condividere il tavolo con gli operai africani, spesso denigrati dai loro datori di lavoro asiatici. Ha fatto il giro del mondo il video in cui un manager cinese chiama ripetutamente “scimmia” il suo dipendente Keniota. È accaduto in uno degli stabilimenti industriali che costellano le periferie di Nairobi, la capitale del Kenya. Secondo le testimonianze degli operai del posto, in alcune sedi i bagni per i dipendenti sono separati in base alla “razza”. Alcune toilette sono riservate ai cinesi, altre ai kenioti.

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