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Furèsta: il nuovo album di La Niña che rievoca il passato per connettersi al mondo

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Furèsta nuovo album di La Nina
Tempo di lettura: 7 minuti

INTERVISTA. Il 21 marzo è arrivato Furèsta, il nuovo album di La Niña. Dieci tracce che ci parlano di un passato folcloristico napoletano, ancestrale e mistico che funge da catarsi e connessione a un mondo disordinato.

L’adrenalina scorre dint’e vene, come in ramificazioni di alberi, a un ritmo che non puoi arginare. Invade prima “ettari” d’oscurità e per ultima s’infiltra in umani e animali, parte di un bestiario e mondo allo sfascio in cui coesistono dolore, rabbia, pregiudizi e ruoli imposti.  

A generarla è lei che, illesa e indomita, in quella boscaglia ha seppellito il suo dolore per rinascere Furèsta: La Niña. Cantautrice partenopea che dal 21 marzo insieme ad Alfredo Maddaluno ha portato alla luce il nuovo disco dal nome appunto Furèsta, selvatico e indomabile. Ma chiamarlo album o disco sarebbe riduttivo, perché le 10 tracce al suo interno rappresentano uno studio di etnomusicologia napoletana sepolta che, come un ruscello gelato disseta nelle giornate più calde e una volta scoperto non puoi più farne a meno.  

 La voce soave e piena di rabbia di La Niña insegue il ritmo del folclore, delle poesie oscene di Ferdinando Russo e gli spettacoli di Roberto De Simone di cui è fan sfegatata; e ancora delle tammurriate (balli e canti con il tamburo campane) e delle villanelle napoletane (composizioni ante pop del ‘400/’500).

Fino a sostare su versi di animali campionati come il suo gatto o le gazze che le fanno visita in giardino e vocalismi arabeggianti con due collaborazioni speciali: KUKII, cantante, compositrice e produttrice egiziano – iraniana e Abdullah Miniawy poliedrico artista egiziano.  

Chitarra battente, mandolino, clavicembalo, tamburi risorgono in alcune delle tracce come Ahi!, l’unico pezzo d’amore sulla perdita che logora; Oinè, l’incontro e gli insulti fra un gatto e un serpente;  Chiena ‘e scippe sulla nostalgia dell’infanzia e la purezza che la contraddistingue. Figlia d’’a Tempesta, un canto corale da brividi che denuncia il ruolo imposto alla donna e invoca tutte le sorelle che ci sono state tolte e non sono tornate e Guapparìa l’ultima traccia scritta, ma la prima a uscire sulle contraddizioni della propria terra.  

Questo solo uno sguardo parziale a un’opera comunitaria, frutto di una crisi esistenziale, che non si sottomette alle convenzioni del mercato. E crede nell’unicità e autenticità creativa evocando suoni, temi sociali, personali, relazionali e femministi facendo leva su quello di più caro ha un musicista: le corde vocali unite alle proprie intime e spesso dolorose evoluzioni. 

Caratterialmente parlando chi è Carola Moccia in arte La Niña

«Proprio pensando al mio carattere ho chiamato questo disco Furèsta. Sembrerà banale però in questo sta il potere della lingua che ho deciso di usare per cantare, il napoletano, che va un po’ oltre il significato ed è evocativa anche a livello sonoro.

Furèsta evoca tanti mondi selvatici e contraddittori, perché la natura è dolce ma anche molto aggressiva. Questo titolo non è un caso, perché più che a rappresentare una mia opera, rappresenta molto la mia persona. Per una volta nella vita so rispondere a questa domanda, perché di solito rispondo che non so descrivere il mio carattere. Questa volta direi che Furèsta si addice».  

 

Nome del disco e personalità collimano, quindi. Ma quando arriva l’idea? 

«È nato prima il disco con tutte le canzoni e poi dopo sentendolo, mettendo insieme i pezzi e osservando da lontano quello che avevo creato ho dato il nome. Non è un concept album, non sarei in grado di farlo perché ho proprio bisogno di assecondare la creatività in maniera libera. Quello che esce, esce. Poi è casuale se i pezzi hanno coerenza l’uno con l’altro». 

 

Furèsta: parola di 7 lettere. Mi daresti 7 aggettivi che descrivono questo album? 

«Sicuramente crudo, violento, selvatico, malinconico, ancestrale, mediterraneo ed erotico. Non nel senso sessuale, ma proprio in senso di eros e passione».  

 

Il disco è frutto di una connessione con il tuo mondo interiore e la tua cultura. Com’è stato questo viaggio di connessione in entrambi questi mondi? 

«Sicuramente è stato molto difficile armonizzare il dentro con il fuori, perché quello che succede fuori non sempre corrisponde a ciò che accade dentro di te. Spesso, non si è pronti dentro a quello che accade fuori e viceversa.

Quindi questo disco per me è un grande successo, perché per la prima volta ho un punto d’equilibrio con me stessa e con il resto del mondo. Forse è questa la cosa che mi ha fatto capire sin da subito l’importanza di quello che avevo fatto, mi sono resa conto che c’era un forte senso di connessione con il mondo fuori che non ero mai riuscita a comunicare». 

 

Il folclore campano è preponderante nel disco. Secondo te cosa lo rende unico? 

«Penso che il folclore sia tutto magnifico, anzi sono stanca di questo campanilismo imperante, amore spassionato e acriticità nei confronti dei propri luoghi, perché ogni eccezionalità nasconde in realtà pregiudizio e anche una visione molto parziale della realtà, a volte anche frutto di realtà auto ghettizzata. Dire che un posto è meglio dell’altro è un’esclusione e non un senso d’appartenenza più ampio.

Penso che tutta la musica ancestrale popolare sia piena di misticismo che si è un po’ perso perché si è un po’ persa la magia al giorno d’oggi. Ed è ancora viva in queste opere che non erano ancora discografia; ecco perché nel momento in cui dai una suggestione che somiglia a quelle opere si riscopre qualcosa di più libero dal mercato. E forse è questo che rende il folclore di tutto il mondo dal Brasile, al Messico alla Spagna allo stesso modo». 

 

Cosa ha provocato la perdita di questa magia? 

«In Italia, parlando del mio paese, perché non studio geopolitica sono stati vent’anni di fascismo a far perdere la magia, facendo perdere la cultura. Dove non c’è cultura non c’è pensiero critico e dove non c’è pensiero critico manca conoscenza, ma non quella accademica. Quella fatta anche di passione e consapevolezza di quello che è stato e del presente.

Una lettura del presente che sappia rendere i pericoli e le criticità; questa cosa ha danneggiato molto anche la creatività perché l’essere umano ha la propria psiche, lingua e capacità critica. Se andiamo ad alfabetizzare un paese con il Grande Fratello invece che puntare su opere come ad esempio film indipendenti, la cultura diventerà di consumo e non è più vera».   

 

La copertina del tuo album raffigura un ritratto “olio su pelle di capra” del maestro Ciro Morrone. Gli squarci sono quelli del tuo cuore, dichiari. Questo album sta contribuendo a risanarli? 

«In parte sì. La musica per me nasce sempre come una medicina. D’altronde la ricerca del sublime è la più grande dannazione dell’artista, ma anche la più grande cura.

Il fatto è che il sublime non si troverà mai, quindi se ti devo dire che c’è grande gioia è vero però c’è sempre forte dissidio interiore quando si tratta di arte in generale. Questo disco mi scombina anche a pensare tanto; non so se mi curerà di certo, al momento, contribuisce al mio essere». 

 

Quanta ispirazione trai dal dolore? 

«Sicuramente i sentimenti, anche oscuri, in questo disco sono stati preponderanti. La verità è che è un momento di merda e negarlo andando in giro con slogan motivazionali e dicendo che tutto andrà bene mi sembra una cosa patetica. Va tutto male». 

Furèsta album de La Nina

Nell’album ci sono due collaborazioni con Kukii e Miniawy. Come mai hai scelto loro e com’è stato lavorare insieme? 

«Ho scelto loro perché sono fan. Kukii per me fece il disco più importante degli anni 2000 e ha dato vita al mixtape soprattutto nella discografia al femminile; molto all’avanguardia e mai riconosciuta a sufficienza.

Le ho scritto da fan chiedendole di collaborare, a lei è piaciuto il disco così ha accettato e siamo diventate amiche. Miniawy non sapevo chi fosse discograficamente e sono rimasta folgorata. Ho pensato sarebbe stato bellissimo approfondire la banalità del conflitto umano, così è nata Sanghe».  

 

Qual è la traccia a cui sei più legata? 

«Chiena ‘e scippe, perché mi suscita facilmente il pianto. Quando la sento e quando la canto c’è quella magia di quel passaggio dal minore al maggiore tipica della canzone napoletana d’autore che ho sempre trovato fuori dal tempo. Non ero mai riuscita a utilizzare con saggezza questo passaggio, invece questo pezzo mi ha aiutata a riscrivere la spensieratezza dell’infanzia e la malinconia del suo ricordo. Mi fa vedere veramente una bambina».  

 

Quella invece che è arrivata in maniera più inaspettata? 

«Guapparìa, l’ultima traccia scritta con Alfredo. È arrivata dalla stanchezza. Siamo stanchi e mi addolora che i problemi esistenti come ad esempio la povertà vengano resi cool e motivo di attrazione per la moda o la musica».  

Se Roberto De Simone tornasse in vita e dovesse mettere in scena una tua canzone, quale gli assegneresti? 

«Oinè, perché ha quel lato buffo ma anche un po’ osceno delle sue opere come La Gatta Cenerentola. Si sarebbe divertito; ci sono parolacce, modi di dire e un giro tipicamente napoletano di musica popolare». 

 

Per questo album hai scavato indietro nel tempo trovando anche opere originali che hanno ispirato persino Mozart. Cosa ti ha stupito di più di queste opere? 

«Il fatto che fossero estremamente attuali nel modo di esporre i sentimenti d’amore; lo fanno con una semplicità disarmante però molto potente. Mi ha stupito la capacità di sintesi, gli arrangiamenti e la capacità melodica di suscitare emozioni fuori dal tempo.

Ho avuto la sensazione che un sentimento soggettivo come quello dell’amore sensuale per l’amato fosse in realtà universale. Sono tornata indietro nel tempo anche ascoltando 4 o 5 ore di campionamenti nelle campagne, leggendo spartiti e cercando villanelle interpretate da compagnie meno famose». 

 

A questo punto della tua vita sai perché sei nata femmina? E cosa significa in questo momento storico nascere femmina? 

«Una serie di gomitoli irrisolti e problemi che non verranno mai risolti a che fare con l’irriducibile cattiveria umana. Non significa che non ci sia speranza. Penso che appunto la cultura, la consapevolezza e parlare delle cose renda le persone consapevoli di quello che accade ed è già tantissimo. Pensare in una risoluzione è utopia, però credere in un’informazione è una cosa molto intelligente». 

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