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Caso Carretta: quando le perizie psichiatriche possono ribaltare una sentenza già scritta

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Assolto per totale incapacità di intendere e volere. Colpevole, ma non imputabile per vizio totale di mente.

Di Luca Rinaldi

Assolto per totale incapacità di intendere e volere. Colpevole, ma non imputabile per vizio totale di mente. Condannato a cinque anni di reclusione da scontare all’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, nel mantovano. Questo il verdetto del 25 novembre 1999 della Corte d’Assise di Parma nei confronti di Ferdinando Carretta, l’uomo che a Parma sterminò a colpi di pistola la sua famiglia, il padre Giuseppe, la madre Marta e il fratello minore Nicola. Questo il responso di un processo celebrato senza cadaveri e senza arma del delitto, entrambi mai ritrovati, e senza imputato in aula, perché presente sempre e solo in videoconferenza.

Ma cominciamo dai fatti. I quattro membri della famiglia Carretta, Ferdinando compreso, risultano scomparsi dall’oggi al domani. È la sera del 4 agosto 1989 e il “Caso Carretta” entra a far parte della quotidianità degli italiani attraverso giornali e tubo catodico. Anche grazie alla neonata trasmissione televisiva Chi l’ha visto? inizia una calda estate di supposizioni, presunti avvistamenti e ipotesi più o meno campate in aria sul destino dei Carretta.

Rafforzati da una pressoché totale mancanza di indizi e tanto meno di motivazioni plausibili per tale scomparsa improvvisa, i giornali si sentono in dovere di dar sfogo a titoloni da prima pagina, basati però solo ed esclusivamente sul fatto che, pochi giorni dopo la scomparsa, risultano essere stati prelevati diversi milioni dal conto corrente del padre e del fratello minore della famiglia. I Carretta si pensa siano vivi, ma fuggiti all’estero. C’è chi parla di un tour nel Mediterraneo e chi li vuole addirittura dispersi nel deserto. La tesi più gettonata porta dritta in Sud America, sull’isola di Barbados, nei Caraibi. Le presunte motivazioni della scomparsa sono altrettanto fantasiose: si va dal rapimento, alla fuga per questioni di debiti e addirittura si ipotizza un presunto furto di capitali e fondi neri occultati da Giuseppe Carretta. Persino il narcotraffico colombiano entra a far parte delle congetture, come possibile motivazione. Una sola persona sospetta sin dall’inizio che alla famiglia possa essere successo qualcosa di peggio: l’allora pm di Milano, Antonio Di Pietro, che salirà qualche anno più tardi agli onori della cronaca per i fatti di Tangentopoli, pensa subito che la famiglia sia andata incontro alla morte. Un’ipotesi questa che non viene però presa in considerazione, forse proprio perché le congetture sulla scomparsa fanno più notizia.

È solo nel novembre di quell’anno che, proprio a Chi l’ha visto? arriva una segnalazione in diretta, che smonta o conferma, a seconda delle interpretazioni, tutte le suddette teorie: il camper Ford Transit dei Carretta è stato avvistato in un parcheggio di Viale Aretusa a Milano. Dai rilievi risulta vuoto e privi di indizi utili alle indagini.

Nel 1992 il caso di scomparsa viene archiviato, ma ancora, nel 1995, in un articolo uscito su Il Resto del Carlino, si sostiene di avere le prove della presenza di Ferdinando Carretta in Venezuela. Si scoprirà essere un’ipotesi tutt’altro che esatta, ma paradossalmente è anche quella che è andata più vicina alla verità. Ferdinando Carretta infatti è vivo, a differenza del resto della sua famiglia, ma si nasconde a Londra, campando di lavori saltuari e sussidio di disoccupazione, e utilizzando semplicemente il suo secondo nome invece del primo (mantiene infatti il cognome). E proprio nella capitale inglese viene infatti fermato, il 22 novembre  del 1998, per una banale infrazione e segnalato da un attento poliziotto, resosi conto che quell’uomo corrispondeva a uno degli scomparsi italiani. Il procuratore Brancaccio, informato dall’Interpol, vola a Londra per interrogare Ferdinando, ma questi sostiene di non aver più notizie della sua famiglia da nove lunghi anni e di non sapere dunque dove si trovino.

Ritorna sul caso Chi l’ha visto? e il 30 novembre, Carretta rilascia un’intervista alla trasmissione: alla domanda del giornalista “Cosa è successo quella sera del 4 agosto?”, la risposta non potrebbe essere più inaspettata: “Ho impugnato quell’arma da fuoco e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello”. Queste le parole pronunciate da Ferdinando Carretta davanti alle telecamere e a milioni di spettatori esterrefatti.

“Un atto di follia completa”, si giustificherà poco dopo. Una confessione ripetuta, seppur con qualche piccola discrepanza su date ed eventi, anche nell’interrogatorio formale davanti al giudice per le indagini preliminari, una volta rientrato in Italia.

Si scopre così cosa accadde realmente quella fatidica sera in casa Carretta. L’obiettivo era il padre, vera e propria fonte di esasperazione del figlio e odiato a tal punto da Ferdinando da chiudersi in bagno con la pistola, caricarla, guardarsi allo specchio e dirsi “Ora o mai più”. Uscito dal bagno aveva sparato al padre. Solo dopo aveva capito di dover uccidere anche il fratello più piccolo, per paura di una ritorsione di questo, e la madre, per potersi rifare definitivamente una vita e tagliare i ponti col passato.

In seguito, Carretta racconta di aver messo i corpi insanguinati nella vasca da bagno. Di notte aveva poi caricato i cadaveri in auto, avvolti nel cellophane, e li aveva seppelliti in una discarica nella provincia di Parma. Allo stesso modo si era disfatto dell’arma, una pistola Walther calibro 6.35. Nei giorni successivi aveva pulito minuziosamente tutto l’appartamento e aveva intascato a nome del padre e del fratello, falsificandone le firme, assegni per un totale di 6 milioni di lire, decidendo di portare il camper di famiglia lontano, a Milano, per depistare eventuali future indagini e da lì partire per Londra e rifarsi una vita.

Nel 1999 gli uomini del RIS, il Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri, trovano, anche grazie alle ultime tecniche scientifiche dell’epoca, parziale conferma delle sue parole: tracce di sangue maschile e femminile vengono rinvenute smontando un portasapone e sul cordino della doccia, nel bagno di casa Carretta.

Il processo a questo punto è una formalità, eppure si conclude con un altro colpo di scena. Le perizie di ben tre psichiatri dichiarano Ferdinando incapace di intendere e di volere al momento del fatto e la Corte d’Assise non può far altro che ritenerlo colpevole di triplice omicidio, pur assolvendolo per vizio totale di mente. Condannato comunque a cinque anni di reclusione in un ospedale psichiatrico giudiziario, Ferdinando ne passerà ben sette e mezzo in quello di Castiglione delle Stiviere, per poi trascorrerne altri nove in una comunità di Forlì.

Nel 2015 Carretta è tornato definitivamente in libertà, riuscendo ad ottenere oltretutto l’eredità dei genitori e la casa in cui avvennero i delitti, poi venduta.

Eppure, nonostante le perizie, la sentenza e gli anni di ospedale psichiatrico giudiziario, i dubbi rimangono, perché a una prima lettura della vicenda non sembra proprio un raptus omicida quello di Carretta, ma qualcosa di meditato e covato a lungo. C’è stata premeditazione nel procurarsi la pistola, così come c’è stata la precisa volontà di uccidere il padre, c’è stato quel darsi coraggio nel bagno davanti allo specchio poco prima di agire, così come c’è stato un preciso e lucido ragionamento per il quale vengono uccisi anche la madre e il fratello, e poi ci sono state la messinscena successiva per depistare le indagini con il camper portato a Milano, l’occultamento dei cadaveri nella discarica, il disfarsi dell’arma, la pulizia accurata per far sparire le tracce di sangue in casa e, da ultimo, il negare coscientemente, 9 anni più tardi, di essere a conoscenza del destino dei suoi. Ebbene, questi non sembrerebbero affatto comportamenti di chi è incapace di intendere e volere. Anche, e soprattutto, al momento del fatto, la volontà e l’intenzione di uccidere sembrano essere ben presenti. Insomma, una sentenza che parrebbe già scritta: omicidio di primo grado, volontario e intenzionale.

Ma in una vicenda piena di colpi di scena, il processo ha finito per smentire queste congetture, evidentemente superficiali, perché le perizie sulla personalità dell’assassino raccontano una verità diversa. Ferdinando, con non poco imbarazzo, spiega di essersi reso protagonista, nel 1982, all’età di 19 anni,  di un evento per lui umiliante: defecò sul proprio letto e in seguito su quello dei genitori. Dal biasimo del padre per questo fatto nascerebbe, secondo gli esperti che lo hanno periziato, l’astio del ragazzo per il padre e, sempre da questo momento, deriverebbero i successivi litigi e motivi di conflitto tra i due. Gli psichiatri assegnano dunque la colpa dell’azione folle di un omicida alla tensione costante presente in un ambiente familiare difficile in cui padre e figlio vivevano in perenne attrito e in un rapporto di incomunicabilità.

La follia, l’incapacità di intendere e volere, sarebbe dunque sorta nella fase precedente al delitto, quando Ferdinando si limitava a fantasticare di uccidere il padre, ma si sarebbe poi trascinata fino a trasformarsi in una lucidità assoluta e ossessiva nelle fasi di preparazione e di esecuzione dell’atto. La sentenza dei giudici non ha potuto che tenere conto del giudizio di tre esperti che, di fatto, non hanno assegnato colpe all’assassino.

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