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Attualità

Brasile.A rischio la foresta amazzonica, polmone del mondo

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La foresta amazzonica è preda di sciacalli a caccia di oro,rame, ferro,bauxite e tantalio. Un’ampia fetta della foresta è stata distrutta da un incendio doloso A rischio la sopravvivenza di oltre 16mila specie animali e un centinaio di tribù indigene che vivono nella foresta.

Pochi giorni fa una distesa di fumo nero ha inghiottito la metropoli brasiliana di San Paolo, ricoprendola completamente. La densità della coltre oscura ha mandato in tilt le linee elettriche provocando un blackout durato oltre un’ora. Per gli abitanti del posto la causa di questo evento eccezionale era chiara: il fumo proveniva dai roghi della foresta amazzonica, la macchia verde più grande del mondo che  il presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, vuole distruggere per far spazio alle coltivazioni. Il suo obiettivo è quello di potenziare l’export di prodotti agricoli, un settore strategico per l’economia brasiliana che l’anno scorso ha fruttato 100 miliardi di euro. Il successo commerciale ha spinto Bolsonaro a vedere nello sfruttamento della foresta amazzonica, da lui definita “improduttiva”, la chiave di volta per porre fine alla recessione che da anni attanaglia il Paese. Ma la ricetta del leader brasiliano è tutt’altro che originale, perché la deforestazione va avanti da decenni. Negli ultimi 30 anni, una area dell’Amazzonia, pari all’estensione di Francia e Gran Bretagna messe insieme, è andata  in fumo con la fauna ed i villaggi indigeni che vi si trovavano. Nella foresta pluviale brasiliana vivono oltre 16 mila specie animali e centinaia di tribù native antichissime. Sono loro l’ultimo baluardo contro la politica economica di Bolsonaro, che ha annunciato di voler autorizzare l’estrazione di materie prime nella foresta amazzonica, ricca di miniere di rame, oro, bauxite, ferro e tantalio, indispensabile per la produzione degli smartphone.

L’attività estrattiva nella macchia verde è proibita dal 1998, a causa degli effetti devastanti che la “caccia al metallo” ha avuto in passato sull’habitat naturale. Prima del divieto, minatori e boscaioli erano liberi di radere al suolo la superficie della foresta e di devastarne il sottosuolo. Tra i “cacciatori di metallo” più agguerriti c’erano, e ci sono tuttora, i “garimpeiros”. Sono i cercatori d’oro brasiliani che, utilizzando il mercurio per l’estrazione, inquinano i fiumi e le falde acquifere. La loro attività non è mai cessata. Ma l’abolizione del divieto del 1998 consentirebbe ai garimpeiros di operare con maggiore tranquillità. Ad ostacolarli resterebbero soltanto gli indigeni, sovrastati da nemici infinitamente più forti di loro: i latifondisti, le aziende minerarie, i grandi allevatori. Queste figure costituiscono le lobby più potenti del Paese carioca. Per loro, avere alla presidenza un leader come Jair Bolsonaro è una “benedizione”. Secondo il presidente brasiliano, i nativi sono stufi di vivere nella foresta, perché “vogliono elettricità, televisione, fidanzate bionde ed internet”. Inoltre Bolsonaro ha dichiarato che agli indigeni non verranno più concesse riserve protette, “nemmeno un centimetro di più”. «Aver permesso agli aborigeni di vivere nella foresta è stato come tenerli in uno zoo»- ha precisato Bolsonaro. La sua scarsa considerazione per i nativi era evidente fin da quando era candidato alle ultime  presidenziali del 2018. Non è una sorpresa. A stupire, invece, è la determinazione con cui il presidente del Brasile contrasta gli enti per la difesa degli indigeni e dell’ambiente. La Funai (Agenzia per la protezione degli Indigeni) è uno degli obiettivi finiti nel mirino di Bolsonaro. Che, nei mesi scorsi, ha cercato di svuotare l’associazione dei suoi poteri per trasferirli al ministero dell’agricoltura. Ma senza successo, la Corte Suprema glielo ha impedito.

Ad ostacolare i piani del presidente brasiliano ci sono anche l’Inpe (istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile) e  l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente del Brasile. I presidenti dei due enti, rispettivamente Ricardo Galvao e Meneses Evaristo, sono stati licenziati dopo aver pubblicato  dati allarmanti sulla deforestazione in Amazzonia. Secondo le due organizzazioni ambientaliste, il fenomeno è aumentato del 400% da quando Bolsonaro è al potere. I primi a pagare il prezzo dell’indebolimento del fronte pro-ambiente sono i più deboli, gli aborigeni, i cui tentativi di difendere la foresta finiscono spesso nel sangue. Recentemente il capo della tribù Waiapi, una popolazione nativa brasiliana, è stato ucciso a coltellate. Il suo corpo è stato ritrovato in un fiume. I Waiapi sono impegnati da tempo a contrastare l’avanzata dei minatori e dei latifondisti. Il sospetto che i possidenti abbiano pagato dei sicari per uccidere il leader indigeno è forte. Si tratta di una pratica consolidata tra gli “invasori dell’Amazzonia. Il motivo? Si tratta di una sorta di “cavillo legale”. La Costituzione brasiliana riconosce agli aborigeni il diritto di vivere nella foresta. È sufficiente dimostrare che uno di loro viva in una determinata zona della selva perché quest’ultima venga considerata zona protetta, interdetta alle attività produttive. Nel momento in cui gli indigeni cessano di abitare l’area, lo status di riserva protetta decade. Il compito dei sicari è quello di facilitare questo processo.

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