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Diritti umani

Riflessioni circa la cosiddetta violenza ostetrica

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Il tema della violenza ostetrica è emerso progressivamente all’attenzione dopo numerose segnalazioni giunte, nel corso degli anni, prevalentemente da Paesi in via di sviluppo.

di Antonio Virgili – pres. comm. Cultura della Lidu onlus

Tra le forme di abuso o violenza cui rischiano talora di incorrere le donne è quella denominata violenza ostetrica.

Ѐ bene chiarire subito che non si tratta di manifestazioni di violenza nel senso penale del termine cioè di reati ben definiti, ma di comportamenti e pratiche poco rispettose della dignità e della persona, messe in atto da operatori e strutture alle quali le donne possano rivolgersi in tutta la fase della gravidanza, del parto e del dopo-parto.  Il tema è emerso progressivamente all’attenzione dopo numerose segnalazioni giunte, nel corso degli anni, prevalentemente da Paesi in via di sviluppo, nei quali purtroppo molto spesso la condizione delle donne è diffusamente trascurata, subalterna o marginale.

Tuttavia alcuni studi ed indagini recenti hanno evidenziato che tale rischio è presente pure in Paesi sviluppati, anche europei, nei quali – diversamente da quanto ci si aspetterebbe – diverse utenti non sono sempre trattate con la correttezza e sensibilità che il contesto e le situazioni imporrebbero. In generale, sempre e comunque il personale sanitario, di ogni mansione e livello, dovrebbe essere attento e rispettoso nei confronti delle persone che utilizzano i servizi sanitari e che, per ovvi motivi, si trovano in situazioni di maggiore fragilità, ciò indipendentemente da genere, età, etnia od ogni altra categorizzazione.

L’attenzione, la pazienza ed il rispetto della dignità altrui costituiscono tre elementi fondamentali per delle corrette e positive relazioni interpersonali, specialmente per quanti sono a contatto diretto e costante con gli utenti.   Se ciò è riscontrabile per la quasi totalità del personale europeo, è bene restare attenti affinché situazioni o eventi disdicevoli restino fortemente minoritari, stante il fatto che poche eccezioni negative sono inevitabili in ogni contesto organizzativo di grandi numeri. Il fatto che tale termine stia entrando nell’uso richiede comunque che se ne chiariscano contorni e contenuto.

Nello specifico, va pure precisato che il termine non si riferisce al solo personale ostetrico, o medico, ma agli operatori in generale, a contatto con le persone.

In generale, si è parlato di “violenza ostetrica” ogni volta che una donna patisce una sospensione della normale autonomia in relazione alla propria sessualità o pratiche abusanti e irrispettose verso la persona, in gravidanza, prima, durante o dopo il parto.  Eventi, come immaginabile, tristemente frequenti in alcuni Paesi.  Tra le situazioni raccolte figurano: abuso fisico diretto; abuso verbale; impiego di procedure mediche coercitive o non acconsentite (esempio: la sterilizzazione); violazione della privacy; assenza di consenso informato nella scelta del trattamento; rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere; negligenza nell’assistenza al parto.

Questa particolare violenza non si concretizza quindi solo in gesti fisici non idonei ma anche in offese, umiliazioni, frasi di scherno, atteggiamenti di leggerezza e di poca sensibilità verso una paziente che in situazione fragile o che sta soffrendo. Secondo l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia, le donne intervistate hanno affermato di avere ricevuto battute pesanti, approcci all’intimità senza richiesta di permesso o anche trattamenti medici senza il preventivo consenso. Nelle situazioni più gravi le future madri si sono trovate sbalzate da una sala all’altra con irruenza e con parole poco edificanti, prive di informazioni e di rassicurazioni su quanto sta accadendo.

In Italia, qualche anno fa, dopo la diffusione dei dati di una indagine Doxa sul tema (Le donne e il parto), alcune associazioni professionali di categoria del personale sanitario con un comunicato definirono “diffamatorie” le notizie, ricadendo nello stesso errore di generalizzazione per il quale gli operatori o sarebbero tutti perfetti o tutti manchevoli.  La realtà, come si sa, è sempre molteplice e varia.

Forse tali organizzazioni più utilmente avrebbero potuto dare risposte ai dati del Cedap del 2018 (Certificato di assistenza al parto), un rapporto pubblicato periodicamente dal Ministero della Salute, secondo il quale c’è un’eccessiva medicalizzazione dei parti negli ultimi decenni. Stando al documento, infatti, i tagli cesarei erano passati dal 10% dei primi anni Ottanta ad oltre il 30%, sebbene la stessa raccomandazione dell’OMS sia quella di mantenerli tra il 10% e il 15%.

Mentre un altro dato mostrerebbe il basso impiego dell’analgesia epidurale: nel 2018, infatti, gli anestesisti erano presenti solo nel 42,15% dei parti.  Il rapporto Cedap del 2021 conferma che “Si conferma il ricorso eccessivo all’espletamento del parto per via chirurgica. In media, nel 2021 il 31,2% dei parti è avvenuto con taglio cesareo, con notevoli differenze regionali che comunque evidenziano che in Italia vi è un ricorso eccessivo
all’espletamento del parto per via chirurgica
” (pag. 6).

Del resto, se ben il 41% delle donne italiane intervistate nella citata ricerca Doxa considerava l’assistenza al parto ricevuta lesiva della propria dignità e integrità psicofisica almeno qualche dubbio dovrebbe sorgere.    La natura emergenziale e portatrice di dolore fisico tipica della condizione del travaglio e del parto (ma non dell’intero ciclo della gravidanza!) non dovrebbe giustificare, ovunque nel mondo, una riduzione della dignità o della sensibilità individuali delle pazienti.

Già nel 2014 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva pubblicato una Dichiarazione denominata “La Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere” affermando che “questo importante tema coinvolge la salute pubblica e i diritti umani”.

Queste osservazioni, in un Paese quale l’Italia dove ci si comincia ad interrogare sui rischi dovuti alle conseguenze di una natalità costantemente bassa, dovrebbe non solo far riflettere ma anche orientare verso iniziative concrete.

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