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Cinema & Teatro

La vita da grandi: il film d’esordio alla regia di Greta Scarano fra commozione e ironia

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La vita da grandi film della regista Greta Scarano
Tempo di lettura: 8 minuti

INTERVISTA La vita da grandi, il primo film di Greta Scarano con Matilda De Angelis e Yuri Tuci che fra sogni e paure ci parla anche di autismo con un pizzico di ironia.

Ci devi provare, ci devi provare”. Alla peggio potrai dire di aver tentato, alla meglio spalancherai la porta dei tuoi sogni e fare un passo, seppur piccolo, verso quella che molti bramano o rifuggono: La vita da grandi. Quella che ha lo stesso nome del primo film diretto da Greta Scarano. Un’opera scritta con Sofia Assirelli e Tieta Madia prodotta da Matteo Rovere dal 3 aprile in sala che, tra commozione e causticità, strizza l’occhio alla storia vera dei fratelli Tercon: Damiano affetto da autismo e Margherita che esordiscono nel 2019 a Italia’s got talent conquistando il pubblico con talento e simpatia. Lo stesso accade nella pellicola di Greta Scarano, dove i protagonisti interpretati da Matilda De Angelis e dall’attore autistico Yuri Tuci se la vedono con un rapporto fratello/sorella pieno di incognite, scoperta e limiti reali e apparenti.  

Irene vive a Roma, dove conduce una vita tra normalità e assestamento. Una calma che lascia il posto alla chiamata della madre che la rivuole a Rimini mentre sarà via per prendersi cura del fratello maggiore autistico, Omar. Una richiesta dettata anche dalla paura di quando i genitori non ci saranno più e Omar dovrà avere qualcuno su cui contare. Ma Omar non vuole vivere con Irene in futuro, anzi vuole sposarsi, avere tre figli (numero perfetto) e diventare un rapper famoso. E per farlo deve fare uno switch esistenziale: diventare adulto. Così chiede alla sorella di insegnarglielo.

I due, da navicelle spaziali differenti nello stesso universo pieno di limiti e barriere si ritrovano a percorrere un viaggio di formazione con una crescita sia per Omar, sia per Irene sibling e caregiver, che impara a dare uno sguardo pure alla sua di vita e puntare alla stella della felicità. Autonomia, libertà e rischio diventano il carburante dei loro shuttle; mentre la diversità quell’asteroide da guardare o con timore per un imminente schianto oppure come una presenza: sappiamo che esiste, può essere gestita e non è esclusiva.

Al genere umano la scelta!

Dopo il liceo hai capito che volevi dirigere – dichiari a Vanity Fair– provando a fare l’assistente alla regia in un videoclip di Scialpi. Cosa diresti oggi alla Greta di quegli anni che ha dato alla luce il suo film? 

«La strada è stata lunga e bellissima con tante soddisfazioni come attrice e di stare tranquilla, perché a un certo punto poi questa cosa la farà».  

 

Primo film d’esordio alla regia. Quando è arrivata l’idea di La vita da grandi e hai detto: “basta adesso lo faccio”? 

«Quando ho visto il provino di Damiano e Margherita Tercon per Italia’s got talent che mi ha conquistata. Poi ho comprato subito il loro libro che usciva in quel periodo scritto a quattro mani. Ho capito che l’intuizione si confermava qualcosa di più grande. C’era una storia che avrei voluto vedere al cinema ma, nonostante in passato abbia trovato varie storie che ho provato a sviluppare con vari produttori sempre per altri registi, non avevo mai sentito l’urgenza di raccontare qualcosa.

Invece nella storia di Damiano e Margherita mi ci sono tanto trovata anche se non ho mai avuto a che fare con la disabilità. Loro hanno un modo di trasmettere la storia e veicolare messaggi che va oltre la loro condizione, arrivano in profondità anche a persone che non hanno a che fare con l’autismo. Quindi, mi sono arrivati tantissimo entrambi: da una parte Damiano che riesce a raccontare la sua disabilità a volte con un’ironia feroce e anche estremamente commovente, perché lui ha vissuto anche dei momenti difficili; e dall’altra c’è la figura della sorella o fratello di persone con disabilità che non sono state tanto raccontate nella cinematografia.

Ho visto che poteva essere una commedia e un film anche molto toccante, perché loro riescono a raccontare la storia con grande leggerezza in alcuni momenti e con grande profondità in altri.  

 

Com’è stato questo primo viaggio alla regia? 

«Appassionante, molto appagante, un viaggio in squadra. A partire dai miei produttori Matteo Rovere e Margherita Murolo, le due cosceneggiatrici Sofia Assirelli e Tieta Madia e le tantissime persone che mi hanno seguito e supportato in tutte le fasi di lavorazione. È stato un viaggio collettivo». 

Perché hai voluto al tuo fianco proprio Matilda De Angelis e Yuri Tuci e in che modo secondo te si completano? 

«Sono entrambi due grandi professionisti. Da una parte Matilda sa stare molto in ascolto e dall’altra Yuri ha il coraggio di dire la sua e non ha paura di essere anche trasgressivo, anarchico e ribelle. Ha questo coraggio di essere se stesso e di prendersi la scena che fa stare lei molto in ascolto. Matilda è un’attrice molto generosa, che si dà tanto in un progetto e nel momento in cui davanti a lei c’è un attore neurodivergente, com’è stato con Yuri, ha saputo stare in ascolto e guidarlo senza essere necessariamente una figura rigida. Forse, sono riusciti a ricreare un rapporto di fratellanza quasi autentico». 

 

Secondo te in quali dinamiche del film si possono ritrovare parti di sé? 

«È vero che il film parla anche di autismo che abbiamo cercato di raccontare con grande rispetto e delicatezza, però penso che tutti si possono rivedere in certe dinamiche familiari. Da quelle abbastanza consuete, magari di una persona che va via a 18 anni e poi torna nella famiglia ed è sempre trattata come una ragazzina a prescindere da quello che sei diventata.

A, forse cercare di continuare a inseguire i propri sogni e non farsi dire dalle persone che non ce la si può fare e magari anche stare più in ascolto delle persone a noi vicine che vogliono solo il nostro bene, oppure quello che ho visto io nella storia di Damiano e Margherita che ho provato a veicolare nel film: alla fine siamo quello che siamo, perché cresciuti in un certo contesto con i suoi limiti e risorse.

Quindi, seppure delle cose ci hanno fatto soffrire, ci hanno reso le persone che siamo e questa è una grande consapevolezza. Pure che non si smette mai di imparare e alla fine non siamo mai veramente adulti e che è un percorso molto spesso passa per la condivisione con l’altro» 

 

Nel film emerge forte il desiderio di autonomia. Quali sono secondo te le difficoltà maggiori di una vita da grandi sia di una persona con disabilità come Yuri, che senza disabilità? 

«Nel nostro film vediamo come la famiglia di Omar, visto che in passato è stato scottato dalle esperienze, rimanga un po’ protettiva e questo da una parte è comprensibile perché si ha paura del mondo che è feroce e violento verso una persona con disabilità e rischia di farsi più male. Dall’altra invece c’è il fatto che viene trattato come un bambino e questo è un limite forse anche se fa parte dell’accudimento verso chi ha una disabilità, mentre Omar ha questo desiderio di libertà e autonomia.

La cosa divertente del film è che la sorella non sospetta che lui non voglia vivere con lei in futuro e a lei quindi viene fatta una doccia fredda, però Omar allo stesso tempo non sa lavarsi da solo e la sorella per renderlo autonomo fa anche terapia d’urto dicendogli di imparare a essere autonomo. Molto del limite è non essere empatici, in ascolto del prossimo. Credo che l’egoismo sia qualcosa che non permette tanto di crescere. L’empatia penso sia la prima cosa che ti aiuta a crescere e se uno non è empatico e in ascolto del prossimo ma solo concentrato su se stesso penso sia limitante». 

La vita da grandi film di Greta Scarano

Yuri Tuci e Matilda De Angelis con Damiano e Margherita Tercon

Ci sono state delle convinzioni sociali che hai voluto scardinare con questa pellicola? 

«Quando parliamo di autismo, si rischia spesso di essere retorici o parlando della disabilità in generale si rischia di essere un po’ banali o buonisti e invece nel film siamo anche, con le autrici, schiette e ironiche. Mentre in generale credo che ci sia ancora tanto da fare sulla consapevolezza sulle disabilità e diversità. Noi volevamo trasmettere quanto sia importante la diversità e quanto debba essere prevista nella società.

Per le persone “normali” quelle con disabilità sono sempre persone alle quali manca qualcosa, così ci siamo concentrate sulle possibilità del protagonista e non sui limiti per quanto ne parliamo e li affrontiamo anche con schiettezza e crudezza. Il film prova anche a raccontare la parte difficile della convivenza con una persona come Omar. Non abbiamo edulcorato, però ci piace l’idea che ci si possa concentrare sulle possibilità e non sui limiti delle persone che magari hanno una disabilità o vivono in una condizione particolare» 

 

Se fossi nei panni di Omar quale sarebbe il tuo desiderio da realizzare?  

«Questa è facile: vorrei avere un programma tutto mio, fare tre figli perché tre è il numero perfetto… (ride). Cose normali ma anche straordinarie e non avere paura di ammettere quali sono i propri desideri anche se sono dei grandi desideri e aspirazioni. Non vergognarsene. Damiano Tercon dice sempre che vuole andare a Sanremo, quindi speriamo che un giorno questo desiderio sarà esaudito». 

 

Mentre in quelli di Irene come affronteresti la situazione di sibling o caregiver? 

«Capisco molto il punto di vista di Irene: arriva e si ritrova in questa situazione dalla quale era scappata, perché si è sentita un po’ trascurata. Crescendo la sua famiglia ha dovuto badare al fratello problematico e lei ha dovuto essere la ragazzina perfetta, non doveva dare problemi e doveva autoregolarsi. Forse il desiderio di diventare una comica era in realtà una ricerca di attenzione dai genitori che erano occupati a badare a Omar.

Forse il fatto di rendere il fratello autonomo e adulto è anche un gesto un po’ egoistico che lei fa. Il suo percorso di riscoperta del fratello è anche un percorso di riscoperta di se stessa. Vedendo il fratello che non ha abbandonato la sua ambizione, nonostante tutti gli dicessero delle possibilità limitate, lei stessa dice che ha avuto le possibilità però ha sempre messo da parte i sogni come diventare una comica. Quindi voleva che lui quantomeno provasse a realizzarsi…». 

Spesso uno dei limiti di ciascuno è quello di chiedere aiuto, specie in una società in cui devi essere sempre forte. Quanto è importante per te chiedere aiuto e ricevere il sostegno di qualcuno. E quando non si trova che si fa? 

«Questo film e questa conversazione esistono, perché un giorno Damiano Tercon ha scritto una mail alla sorella chiedendo aiuto. Se lui non avesse avuto la forza non saremmo qui a parlare. Per me è potentissima la capacità di chiedere aiuto, perché molto spesso le persone non si rendono conto neanche di avere un problema quindi nel momento in cui si ha la consapevolezza è più semplice farlo. Nel momento in cui si trova la forza cambia il pattern in cui eri infilato, in cui generavi sofferenza per te stesso e le persone che ti circondavano. Se non si trova bisogna continuare a cercarlo». 

 

Pensi che il film possa ispirare altre persone con autismo a credere nei loro sogni? 

«Me lo auguro fortemente. Ci rivolgiamo sia a persone autistiche, che non autistiche e spero che un po’ tutti possano lasciarsi ispirare dalla forza e dal coraggio di Omar nel credere nei suoi sogni nonostante tutti in passato gli abbiano chiuso delle porte in faccia e detto che aveva delle possibilità limitate. Mi auguro che possa ispirare le persone a valorizzare i propri talenti e a cercare di essere consapevoli dei propri limiti senza che diventino una gabbia dalla quale non si riesce a uscire». 

 

Alla fine dell’avventura c’è qualcosa del film che cambieresti? 

«Forse solo la mia apprensione in questo momento sulla sua sorte. Vorrei essere semplicemente soddisfatta e orgogliosa senza pensare a tutto il percorso tortuoso della promozione e distribuzione. Non cambierei nulla, perché ho avuto la fortuna di scegliere i miei collaboratori, le persone che volevo e ho avuto vicino. Persone che si sono caricate sulle spalle il film: dagli attori, al cast tecnico, fino al direttore della fotografia, lo scenografo, la costumista. Tutte persone che sono state anche coinvolte a livello emotivo e questo credo abbia creato quel clima e atmosfera giusti per fare qualcosa di cui dopo si è fieri e soddisfatti». 

 

 

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