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Attualità

La mano dei Nobel

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I “miei” premi Nobel sono 4, tre italiani e una australiana.

di Sergio Bevilacqua

I “miei” premi Nobel sono 4, tre italiani e una australiana.

Cominciamo proprio da lei, Elizabeth Blackburn. L’ho conosciuta nel 2013 a V enezia, alla conferenza mondiale sulla longevità, nell’ambito del ciclo del povero Umberto Veronesi sul futuro della scienza. Umberto Veronesi, professore e persona squisita, l’anfitrione ideale dell’Italia sanitaria e di questa gioiosa kermesse annuale del sapere scientifico da lui voluta e inventata, quell’anno non c’era, a causa di un mal di schiena, si è sussurrato, effetto di qualche trattamento che anche un “ragazzo” come lui ogni tanto deve fare (io con la mia, di schiene, ho iniziato a 30 anni). Il dubbio però che, alla 9^ edizione di quest’appuntamento mondiale, abbia fatto come dice Nanni Moretti: “Mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?”. In realtà pochi anni dopo, il novembre del 2016, Veronesi ci lasciava.  L’isola di San Giorgio era splendente di sole (sono almeno tre anni che in questi giorni brilla insieme al miglior umano conoscere) ed era “boterizzata” da una scultura gonfiabile. Come una guardiana gigantesca e stanca, la giunonica donna di Botero sorvegliava attenta il bacino di S. Marco. Al suo fianco mastodontico, la sede elegantissima, razionale e reale, della Fondazione Cini, che ospitava lo scorrere del racconto sulla “longevità”: regole, usi e costumi per il protrarsi dell’esistenza umana.

C’è stato il meglio di tutto, luminari su luminari, un’impostazione della questione come sempre di rara lucidità e completezza. Prima di tutto, i telomeri (derivano dal greco télos, «fine», e méros, «parte», parti terminali dei cromosomi): ramoscelli della vita e della morte, deputati alla riproduzione cellulare, sia a quella buona che a quella cattiva, scoperti in questa loro funzione da Elizabeth Blackburn, appunto premio Nobel per la Medicina 2009. E il loro enzima “telomerasi”: per causa sua, si accorciano e s’invecchia, funzionano troppo e ci viene il cancro. E allora? Arriva Goldilocks, ovvero Riccioli d’Oro! La vecchia favola dell’Ottocento inglese narra di una curiosa bambina dai boccoli biondi che, dopo avere provato colazioni (troppo calde o fredde), sedie (troppo grandi o piccole) e letti (troppo duri o morbidi), apprende la lezione: l’importanza del giusto mezzo. La morale della fiaba tradotta nel mondo della ricerca oncologica del Nobel si concretizza nell’ambizioso traguardo di riuscire a bilanciare l’attività di telomerasi, che non deve essere né eccessiva, né difettosa.

Ed ecco, all’orizzonte, addirittura dei farmaci ad hoc! Poi, sempre per ridurre a pillola tre giorni esaltanti di scienza vera, lo stile di vita: mangiate bene, riposate il giusto, il movimento quanto basta, datevi scosse ogni tanto, ma non sempre, per svegliare il vostro cervello e organismo… E non dimenticate la dieta! Mangiare bene (naturale equilibrato tanta acqua) e, soprattutto, poco! Per vivere di più, ridurre le calorie: ce l’hanno cantato in mille modi e in tante lingue di differenti relatori di livello mondiale, lì a san Giorgio di Venezia, che nemmeno un eschimese l’avrebbe scampato, il messaggio.

Ma… chi sono “i” premi Nobel? Come sono “fatti”? Non so quanti tra voi ne hanno conosciuti… Io ne ho conosciuti quattro, tre italiani e una straniera, la Blackburn (medicina), grazie a “The Future of Science” 2013: sembrava sempre la studentessa migliore e più simpatica del campus… Mi domandava di cose varie, lei a me, con l’atteggiamento sereno della bambina che sa come chiedere ciò che vuole imparare: che carina, questa sessantacinquenne, anche lei coi riccioli ancora d’oro…

Poi, tra i premi Nobel, ho poi conosciuto Dario Fo (Letteratura 1997): ero a Modena, nel 2006 forse, con l’amico attore Luigi Rigoni e un’amica, una specie di vice-sindaco di Roma, al parco, dopo uno spettacolo del nostro. Il chiosco serviva birra a noi, seduti sotto le chiome dei tigli. Dal buio, solo, chi spunta? Il Nobel Dario Fo, a spasso nottetempo, solitario. Niente male, umanissimo: così, facciamo due chiacchiere. L’ho poi rivisto a Milano nel 2016, alla ultima presentazione di un suo libro, si è ricordato e quando mi ha autografato la copia che ha preteso che prendessi in omaggio, l’ho visto stanco ma sereno. Sarebbero passati pochi mesi soltanto, ed eccolo lasciarci…

Poi ho conosciuto il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia: quest’ultimo meglio degli altri, perché ho frequentato per cinque anni con assiduità suo fratello quasi gemello Silvio, di vent’anni esatti più grande di me. Ricordo una telefonata con sua madre a Gorizia, una signora orgogliosa e serena, circa ottantenne già all’epoca (1987 o giù di lì): “Carlo –, mi diceva, – è stato proprio bravo. Ma anche Silvio, però! Quanti consulenti siete, in giro per l’Italia? A mettere a posto la nostra economia?” Che tenerezza: mamma di Nobel, ma pur sempre mamma! Silvio, persona di simpatia e cultura straordinaria, purtroppo ci ha lasciato alcuni anni fa.

Ed eccoci all’ultimo premio Nobel, anch’egli per la fisica: Giorgio Parisi. Già Presidente dell’Accademia dei Lincei, abbiamo avuto scambi interessanti per via degli effetti sociologici dei mutamenti climatici, anche grazie al mio ruolo didattico in LUMSA. Allora, tirando il minimo comune denominatore (con questa rischio il Nobel anch’io): cos’hanno in comune, i “premi Nobel”? Una cosa posso dirla, di questi quattro, Blackburn, Fo, Parisi e Rubbia: lo stesso tocco della mano. Calore tiepido e gradevole, mano morbida ma non flaccida, pelle delicata ma non velluto, stretta avvolgente perfetta e sapientemente calibrata, forse addirittura naturale.

Per finire, un consiglio di lettura: l’“Antologia di Teatro Italiano Contemporaneo”, IBUC 2013, riporta un bellissimo testo di Monica Castello sulla vita sanremese di Alfred Nobel. Da non perdere.

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