Arte & Cultura
La colpa e l’innocenza, l’opera prima di Sergio Fanara
La forza e la fragilità dei sentimenti in un romanzo in cui viaggio introspettivo e fisico si svolgono parallelamente come i binari che portano dalla Provenza a Firenze e Palermo.
La rievocazione dei tragici fatti di cronaca che videro tra Palermo e Firenze morti illustri per mano mafiosa tra gli anni ottanta e novanta tra le righe del primo romanzo, dolce e malinconico, di Sergio Fanara.
Ho avuto la fortuna di leggere Sergio Fanara prima che decidesse di pubblicare, quando piccoli brandelli dei suoi pensieri circolavano sul web, in forma di post e rigorosamente sotto pseudonimo.
L’intensità degli scritti, per brevi che fossero, mi stupì. In poche righe ciò che doveva arrivare arrivava, come una carezza sul cuore o un pugno nello stomaco.
Scrisse della propria madre, del dolore, dell’indifferenza, dell’immigrazione, del ricordo, dell’amore e della morte. Di persone, sentimenti e soprattutto ricerca di sé, con una delicatezza non comune. Poi più nulla per quattro lunghi anni, anni nei quali misteriosamente sparì.
Ora torna per donarci il frutto di quegli anni di silenzio, un’opera prima, “La colpa e l’innocenza” edito da Scatole Parlanti.
Un romanzo intenso, come gli scritti che avevo avuto modo di leggere, in cui il ritmo rapido cede alla scorrevolezza ed alla fluidità, nella diluizione delle pagine.
Cosa l’ha determinata a scrivere, ma soprattutto a pubblicare questo romanzo?
Senza dubbio un forte bisogno di autenticità. Il mio proposito era scrivere una storia che mettesse al centro valori e complessità dell’animo umano escludendo ogni forma di “contaminazione” legata all’attualità. La velocità con cui oggi consumiamo informazioni, tecnologie, relazioni sociali e perfino sentimenti, è una sorta di stordimento universale che lascia esausti. Da qui la necessità di recuperare una dimensione più umana e farne un racconto dove trovasse spazio non solo la creatività narrativa ma anche spiragli di realtà legati alla memoria personale e collettiva. Decidere di pubblicare il romanzo, anche per la natura introspettiva che lo caratterizza, è stato un passo assai difficile. A spingermi alcune persone, tra le quali mia moglie e la casa editrice “Scatole Parlanti” che ha creduto nella bontà del libro e che ringrazio.
Un capo del filo conduttore della narrazione viene tenuto da Jean, un bimbo nato in una famiglia numerosa e poco abbiente, che grazie all’aiuto di un mentore raggiungerà obiettivi insperati. La storia della sua vita si assocerà indissolubilmente all’evolvere della narrazione.
Una storia che si sviluppa in tre dei luoghi, due dei quali le appartengono, Firenze e Palermo. Quanto la parte autobiografica si intreccia al romanzo?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia meravigliosa, sicuramente poco attrezzata dal punto di vista economico ma ricca come poche sotto il profilo che più conta, quello umano. La mia città, Palermo, e il mio quartiere, la Rocca, sono stati osservatori privilegiati che mi hanno permesso di vivere sia la bellezza della mia terra e della sua gente che il lato oscuro e tragico che tutti conosciamo. Infine Firenze e il Mugello, luoghi di arte e splendori dove ho scelto di vivere. Inevitabile, direi quasi fatale, intrecciare in questo romanzo trascorsi reali è immaginazione.
Il terzo luogo, Roussillon, apre il romanzo e, in un susseguirsi di eventi, il mistero che porterà Jean a viaggiare indietro nel tempo con il desiderio di scoprire e comprendere.
Cosa l’ha determinata ad ambientare la prima parte in Francia?
Semplicemente la necessità strutturale della narrazione e perché la via delle ocre nel villaggio di Roussillon mi ha incantato. A questo riguardo mi piace definire La colpa e l’innocenza un romanzo itinerante, non solo per le diverse ambientazioni scelte ma per averlo scritto “in movimento”: in aereo verso Palermo, al tavolo di un bar a Firenze, alla riserva dello Zingaro in Sicilia, tra i boschi dell’appennino, insomma ovunque sorgesse un’ispirazione.
Il suo libro si colloca in un passato prossimo, tra gli anni ottanta ed i novanta, non semplice da raccontare, in cui le bellezze dei luoghi descritti vengono bruscamente distratte da avvenimenti cruenti nei quali chi ha vissuto dei valori fondanti della nostra società ha perso la vita perseguendo il bene comune.
Perché ha deciso di ambientare il romanzo in questo periodo?
È vero. Sono stati anni difficili e inenarrabili a causa dei sanguinosi fatti di mafia accaduti a Palermo e Firenze e in parte rievocati nel romanzo non senza tensione emotiva. Da cittadino ho vissuto con sgomento quella stagione di ferocia, ma ho anche assistito e partecipato al fiorire della “primavera di Palermo” dove ciascuno nel suo ruolo, giornalisti, studenti, operai, insegnanti, sindacati e associazioni, hanno seminato il valore della legalità e sostenuto chi era in prima fila. Abbiamo tutti il dovere della memoria e collocare il romanzo in quel periodo è un atto di gratitudine nei confronti di chi ha perso la vita per consegnarci un mondo migliore. Non si può e non si deve dimenticarlo.
Intrighi, suspence, omicidi, mafia, verità taciute, lettere nascoste e foto misteriose. Nel suo primo romanzo si mescolano due generi che, chi come me l’ha letta prima, non facevano parte del suo scrivere, il giallo e il noir.
Casualità o evoluzione?
Né l’una né l’altra. La stesura di un romanzo ha ritmi decisamente diversi da un racconto breve dove è possibile condensare un’intensità costante e diretta. Ho comunque scritto cercando di prendere per mano il lettore, appassionarlo e condurlo dentro la storia stessa. Non so quanto ci sia riuscito, questo lo giudicherà chi avrà la voglia e la curiosità di sfogliare il libro.
Il mentore che ha dato a Jean la possibilità di riscattarsi culturalmente e socialmente riceve attraverso Jean il dono più grande. Di questo dono lasceremo la scoperta al lettore, che insieme ad esso troverà altre “tracce” per un piacevole viaggio interiore.
Tra i tanti messaggi che si trovano nel suo libro, vogliamo rivelarne uno ai nostri lettori?
Preferisco parlare di spunti di riflessione. Il più importante è senza dubbio l’invito all’apertura, al confronto, al dialogo. Smussare le posizioni, mettere da parte i pregiudizi e parlarsi. E cosa forse più importante, ascoltare. Non posso infine non sottolineare il valore assoluto della solidarietà. A tutti nella vita deve essere concessa un’opportunità, la solidarietà non è un atto di carità ma ciò che ci rende meravigliosamente umani.