Attualità
Kazakistan, manager italiano in carcere da 3 anni: trovato con hashish
Deve scontare una pena a sei anni di reclusione. Scrive a Repubblica: “Sono disperato”. Per lui impossibile l’estradizione.
Roma, 19 luglio – Si chiama Flavio Sidagni, è un italiano, e da 3 anni è rinchiuso in un carcere del Kazakistan dove sta scontando una condanna a sei anni per traffico internazionale, spaccio e induzione all’uso di droghe. Sidagni ha 58 anni ed è un dirigente dell’Eni, società per la quale ha lavorato per oltre 30 anni. Dal 2000 è stato trasferito in Kazakistan, dove ha lavorato come manager dei due consorzi Kpo e Agip Kco per dieci anni. Il 20 aprile 2010 la Polizia è arrivata a casa sua e ha cominciato a perquisire e cercare finchè non ha trovato 120 grammi di hashish che il manager deteneva per uso personale. Da quel momento inizia l’odissea di Sidagni che è stato arrestato, processato e condannato dalla giustizia kazaka con indagini dubbie dalle quali sarebbe emerso che l’uomo spacciava e che organizzava festini a base di droghe leggere e prostitute.
La vicenda viene fuori in Italia dopo qualche mese quando il quotidiano ‘La Repubblica’ ha pubblicato una lettera d’aiuto del manager nella quale spiegava di essere in attesa dell’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema, e chiedeva a Eni e all’Ambasciata italiana un maggiore impegno per risolvere il suo caso giudiziario.
Intanto, il 14 febbraio del 2011 per Sidagni la situazione peggiora. La Corte suprema del Kazakistan ha confermato la condanna in Appello e il manager rimane rinchiuso. In preda alla disperazione riesce ad entrare in possesso di un cellulare e, chiuso nel bagno del carcere, in modo rocambolesco e rischiando di essere scoperto, scrive una seconda volta a Repubblica. “Mi chiamo Flavio Sidagni e lavoro per l’Eni da 30 anni. Negli ultimi 10 ho lavorato in Kazakistan come manager del Dipartimento finanza e controllo dei 2 consorzi Kpo e Agip Kco. Il 20 Aprile scorso l’autorità di polizia kazaka ha predisposto una perquisizione forzata del mio appartamento rinvenendo sostanze stupefacenti leggere che detenevo per uso personale”. “Sono disperato” dice al quotidiano quando riescono a contattarlo in prigione. “Fra poco sarò trasferito in un carcere dal quale non uscirò vivo”, (carcere di massima sicurezza di Semey). “Sono il solo straniero qui, e per loro sono la gallina dalle uova d’oro. Qualsiasi cosa ha un prezzo, e al momento è un bene che sia così”. “Stavamo fumando con alcuni amici a casa mia- spiega ricordando il momento dell’arresto- Quando hanno suonato non ho guardato nello spioncino, non potevo mai immaginare una cosa del genere. Ora non faccio altro che pensare a quel momento. Perché avrei potuto rifiutare la perquisizione, era un mio diritto, ma me l’hanno detto dopo. Se avessi capito, se avessi saputo, se avessi compreso le parole. Ma non l’ho fatto. E adesso è tardi. Non ci sono vie d’uscita”.
Grazie all’intervento del governo italiano (del caso si occupò Berlusconi, Monti e Napolitano), Sidagni non è stato mai trasferito nel carcere di Semey, ma le ultime notizie di lui risalgono a circa un anno fa quando una giornalista kazaka, che parla un po’ di italiano, è riuscita ad incontrarlo e parlare con lui. Dopo un periodo di circa 13 mesi, molto duro e difficile, adesso è in una sezione del carcere con un regime meno duro. Vive in una baracca con altri detenuti e sbriga qualche mansione in cucina. Vive abbastanza isolato perché non conosce la lingua locale e sono pochi i detenuti che parlano inglese. Per lui, però, l’estradizione è impossibile vista la mancanza di trattati bilaterali tra l’Italia e il Kazakistan, che non ha aderito neanche alla convenzione di Strasburgo sul trasferimento dei condannati. L’unica possibilità di rientro in Italia, al momento, sarebbe solo l’espulsione.