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Jeni Haynes: quando il reato non è contro la persona ma contro la personalità

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La storia di Jeni Haynes, 49enne inglese, sembra essere un caso da manuale, se non fosse che le personalità alternative che ha sviluppato per “sopravvivere” agli abusi del padre, sono ben 2.500, il numero più alto fino ad oggi conosciuto.

Il disturbo dissociativo dell’identità (DDI), secondo il DSM, implica la presenza di due o più identità o stati di personalità separate che prendono il controllo del comportamento del soggetto, avendo un impatto sulla conoscenza e la memoria dell’individuo. La maggior parte di chi ne soffre ha subito abusi fisici o sessuali, seppur rimane controversa la correlazione tra abusi e DDI.

La storia di Jeni Haynes, 49enne inglese, sembra essere un caso da manuale, se non fosse che le personalità alternative che ha sviluppato per “sopravvivere” agli abusi del padre, sono ben 2.500, il numero più alto fino ad oggi conosciuto.

La sua vicenda inizia all’età di 4 anni, quando il padre, Richard Haynes, inizia a stuprarla, non solo abusando di lei ma torturandola quotidianamente, riuscendo anche a convincerla di avere il potere di leggerle nella mente, così da mantenere un costante controllo, anche psicologico, sulla sua piccola vittima, e tenendola sotto la costante minaccia di non doverne proferire parola con nessuno, né con la madre, né con il fratello o la sorella, pena la morte di quest’ultimi. Un’invasione totale della sfera privata e interiore della bambina, quindi, compiuta dal padre, un sadico che traeva piacere da tutto ciò. Ad aggiungere male al male, il padre negava a Jeni anche le più basilari cure mediche, evidentemente necessarie dopo i numerosi abusi, tanto che oggi, a 49 anni, la donna convive con lesioni irreparabili alla vista, ai legamenti della mascella, all’intestino, all’ano e al coccige, oltre a essere impossibilitata ad avere figli e a essersi sottoposta a diversi interventi chirurgici tra i quali una colostomia.

È in quel primissimo periodo di abusi, però, che la sua personalità di bambina inizia a scindersi, creando Simphony, una bambina di 4 anni che prende letteralmente il sopravvento in occasione degli abusi così da permettere a Jeni di non vivere direttamente il trauma. È una tecnica di difesa sofisticata quella messa in atto dalla psiche di Jeni: creare un alter (così è definita un’identità alternativa in psichiatria) che “assorba” il trauma, qualcuno che possa nascondere l’amara realtà a chi la subisce, che possa fare da bersaglio per il dolore e la sofferenza, che ricordi al posto suo ciò che altrimenti potrebbe distruggerla emotivamente. Qualcuno che possa testimoniare ciò che l’individuo proverà con tutte le sue forze a dimenticare.

Nei dieci anni di abusi Jeni ha creato circa 2.500 alters, ciascuno dei quali ha una propria voce e caratteristiche peculiari, così come ciascuna di queste personalità alternative possiede ricordi che le altre non conoscono, proprio perché può emergere e “vivere” una sola personalità per volta, pur coesistendo tutte in uno stesso corpo. È così che ogni personalità creata da Jeni ha avuto un ruolo preciso nel contenere un particolare elemento traumatico degli abusi subiti: un odore, un comportamento, un dettaglio visivo, un luogo specifico legato alle torture, eventuali conseguenze spiacevoli sviluppate in età adulta. Oppure c’è, tra gli alters, chi ha il compito di proteggerla e chi di organizzare letteralmente la sua vita, redigendo una lista di regole per far convivere tutti gli alters e per dare loro il “permesso” di emergere. Bambini, adolescenti, adulti, maschi e femmine, che convivono in un solo corpo traumatizzato.

Jeni ha avuto la forza di denunciare il suo aguzzino solo nel 2009, grazie anche all’aiuto della madre, rimasta per anni all’oscuro di tutto. Negli anni precedenti la lotta di Jeni si è rivelata molto dura, essendo stata allontanata persino da chi, psichiatri e terapeuti, avrebbe dovuto crederle e aiutarla. Solo nel 2017, dopo anni di indagini, il tribunale di Sidney ha ottenuto l’estradizione di Richard Haynes dal Regno Unito, dove stava già scontando una condanna per altri crimini. A marzo del 2019 c’è stata la definitiva condanna a 45 anni di carcere per le violenze perpetrate nei confronti della figlia.

Ma il processo a Richard Haynes è salito agli onori della cronaca per un fatto destinato a cambiare per sempre la storia della giurisprudenza: a testimoniare contro di lui alla sbarra si sono presentate 6 delle 2.500 personalità di Jeni, ciascuna con la propria parte di storia, e le loro testimonianze sono state accolte, risultando decisive per la condanna. Simphony, una bambina di 4 anni, colei che si è addossata i momenti peggiori degli abusi; Muscle, un adolescente di 18 anni, il cui compito è da sempre quello di proteggere Jeni; Linda, una giovane ed elegante donna che ha spiegato al giudice l’impatto che gli abusi hanno avuto sulla Jeni adulta, a scuola e sul lavoro, e ancora Ricky, Giuda, Erick… ognuno con il suo contributo, hanno puntato il dito contro quell’unico colpevole.

Oggi, dopo la vicenda processuale di Jeni, sarà possibile ottenere giustizia anche per altri individui affetti da DDI, che finora non sono stati creduti da polizia, psichiatri e terapeuti, né tantomeno da giudici. Da questo momento è possibile far testimoniare le personalità, invece che le persone.

Sarah Huggett, la giudice che si è occupata del processo, al momento della lettura della sentenza, ha dichiarato che Richard Haynes probabilmente morirà in prigione, che i suoi crimini sono inquietanti, perversi e disgustosi e che è impossibile che la sentenza possa riflettere la gravità delle loro conseguenze.

Qual è il problema di questa dichiarazione? La parola “probabilmente”.

Per i soggetti come Richard Haynes non dovrebbe essere prevista la parola probabilmente, ma solo la parola definitivamente. Il prossimo passo, da questo momento in poi, allora, dovrebbe essere quello di creare una nuova categoria di reato, da aggiungere al reato contro la persona. Perchè nel caso di Jeni, se fosse esistito un reato contro la personalità (o le personalità), Richard Haynes non avrebbe avuto solo 45 anni di condanna per aver abusato e torturato una singola persona. Le sue vittime, da Simphony in avanti, sarebbero state migliaia, ognuna con il proprio bagaglio traumatico creato da quell’uomo e quei 45 anni sarebbero stati dilatatati con diverse pene cumulative grazie alle quali la parola probabilmente sarebbe stata spazzata via.

Solo così la pena sarebbe stata proporzionata al crimine e la sentenza avrebbe potuto riflettere la gravità delle conseguenze.

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