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Il killer Antonio Boggia: una ventata d’aria gelida in una Milano d’altri tempi

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Quando Cesare Lombroso guardò negli occhi il primo serial killer della storia italiana

Il nome Antonio Boggia non dirà molto alla maggior parte di voi. La sua è una storia troppo vecchia per essere ricordata e raccontata da qualcuno che era presente. Eppure, di primati e titoli altisonanti il “buon” Antonio, così lo definiva chi lo conosceva, ne ha accumulati diversi: primo serial killer italiano riconosciuto, “Mostro di Milano”, “Mostro di Stretta Bagnera”, ultimo condannato a morte di Milano prima della Seconda Guerra Mondiale. C’è persino una leggenda che vuole il suo fantasma aggirarsi ancora nei pressi di quella che un tempo era Stretta Bagnera, oggi promossa a Via Bagnera. Se passate da quelle parti e una ventata d’aria gelida vi sfiora la pelle e vi fa rizzare i peli sulle braccia, beh, sappiate che quello è il primo serial killer di Milano che tenta di sfilarvi il portafoglio.

L’avidità, infatti, era il suo movente. Intascarsi le piccole fortune del malcapitato di turno, attirandolo in un piccolo scantinato nella Stretta Bagnera e accoppandolo a colpi d’ascia o di mannaia. Finire poi il lavoro, smembrando il cadavere e murandolo nella cantina stessa e, infine, attuare lo stratagemma per appropriarsi di tutti i suoi beni: grazie ai suoi complici, tra cui un notaio, un calligrafo e alcuni falsi testimoni, riusciva a certificare false deleghe delle sue vittime che lasciavano immancabilmente a lui la gestione dei loro patrimoni.

Il Boggia era un uomo sposato e con figli, che viveva a Milano in Via Nerino 2, nello stabile appartenuto ad Ester Maria Perrocchio. Era un signore distinto e raffinato, assiduo frequentatore della chiesa di San Giorgio al Palazzo, un muratore capomastro noto per la sua conoscenza del settore delle aste. Così lo vedevano i vicini e i conoscenti, un lavoratore timorato di Dio, sempre tranquillo e disponibile. In modo simile lo descriverà la sentenza pronunciata contro di lui dal Tibunale di Milano: “Di modi calmi, con un’esteriore quasi di bonarietà, esatto osservatore delle pratiche religiose, estraneo, almeno apparentemente, da viziose tendenze.”

Nessuno però, al suo arrivo a Milano, era ancora a conoscenza dei suoi precedenti con la giustizia. Già nel 1824, infatti, a soli 25 anni, il Boggia dovette fuggire nel Regno di Sardegna a seguito di una denuncia per truffa con cambiali non onorate. Qui, poi, si ritrovò coinvolto in un altro processo per rissa e tentato omicidio. Fu incarcerato, ma riuscì a fuggire approfittando di una rivolta. Tornò quindi nel Lombardo Veneto e approdò a Milano dove, nel 1831 si sposò.

Tutto filò liscio fino al 1860, quando Giovanni Murier, figlio della signora Perrocchio, ne denuncia la scomparsa, dopo aver condotto una piccola indagine personale interrogando gli inquilini dello stabile. Questi gli indicano Boggia, che al tempo risultava essere l’amministratore unico dei beni della donna. Boggia riferì semplicemente che la donna si era trasferita sul lago di Como lasciando a lui la gestione dell’immobile e mostrando anche alcune lettere della Perrocchio a conferma di tali parole. Bastò però una visita del Murier da un notaio per fiutare l’imbroglio e rivolgersi di conseguenza alla polizia che, nelle vesti del giudice Crivelli, aprì un’indagine.

Venne fuori che la procura della Perrocchio era falsa, stipulata dal Boggia con la complicità del notaio Bolza di Como. A ciò si aggiunse anche un precedente del Boggia risalente al 1851, quando aveva tentato di uccidere con un’ascia un conoscente, tale Giovanni Comi, reato per il quale venne condannato dalla giustizia austriaca a tre mesi di manicomio criminale, scontati i quali fu rilasciato. Anche i vicini ci misero del loro, testimoniando di aver visto Boggia indaffarato con sacchi da muratore, sabbia e mattoni proprio nella Stretta Bagnera. Seguì un’accurata perquisizione dello scantinato che portò alla luce il cadavere della Perrocchio, murato in un angolo.

Non finisce però qui, perchè nella scrivania di Boggia vengono rinvenute altre due procure rispettivamente a nome di Angelo Serafino Ribbone e Pietro Meazza. Il primo era stato un manovale alle dipendenze di Boggia e, malauguratamente aveva confidato a questi di aver messo da parte, in vista delle imminenti nozze, una somma di più di 1.000 svanziche. Nella procura incaricava Boggia di prelevare per suo conto i propri averi presso un’anziana zia. Il secondo lo incaricava invece di vendere la sua bottega e una cantina proprio lì in Stretta Bagnera. Entrambi i soggetti risultavano però irrintracciabili. Ispezionata nuovamente la cantina di Boggia, sotto il pavimento vennero rinvenuti i cadaveri dei due malcapitati più, a sorpresa, un terzo corpo, attribuito in seguito a Giuseppe Marchesotti, un commerciante di granaglie, ulteriore vittima del Mostro di Stretta Bagnera, ucciso per ben 4.000 svanziche.

Fu grazie alle intuizioni del giudice Crivelli, dunque, che, nel 1861 si arrivò al processo e alla condanna di Boggia alla pena di morte. Considerato il chiaro movente dei suoi delitti, a nulla valsero i tentativi dell’uomo di fingersi “alienato” (si dice che, per dimostrare la sua pazzia, si aggirasse nudo nella propria cella lamentando atroci mal di testa che gli ordinavano di uccidere). Boggia fu impiccato l’8 aprile del 1862 tra Porta Vigentina e Porta Ludovica, in un carro coperto, lontano dalla vista del popolo milanese desideroso di sangue. Due boia vennero fatti arrivare da Torino e Parma, perché a Milano non ne servivano più da parecchio tempo.

In seguito il corpo senza testa di Boggia fu sepolto nel cimitero del Gentilino presso Porta Ludovica, mentre la testa fu messa a disposizione del Gabinetto Anatomico dell’Ospedale Maggiore e in seguito affidata a Cesare Lombroso, studioso noto per trarre le prove della malvagità di qualcuno osservandone semplicemente ma scientificamente l’aspetto fisico. Fu dunque solo in quel momento, decisamente troppo tardi, che Cesare Lombroso, padre della moderna criminologia, potè guardare dritto negli occhi il primo serial killer della storia italiana. E chissà, forse una ventata gelida avrà sfiorato anche lui…

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