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Attualità

Fabio Samela, il fotografo degli scatti liberi da convenzioni e pudore

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Fabio Samela fotografo
Tempo di lettura: 8 minuti

Fabio Samela, il fotografo lucano in arte Fab(b)io ci racconta del suo percorso fatto di ferite e delusioni, che hanno ispirato i suoi scatti accompagnati da pensieri scritti dove si mostra senza peli sulla lingua.

Tarocchi, astri e santini di martiri fedeli ai loro ideali: simboli dell’occulto, del mistero e del sacro, che popolano la vita, l’ispirazione e la prospettiva di Fabio Samela, un ragazzo agnostico dalleferite sanguinanti”, ricucite dalle parole impresse in scatti provocatori.  

Fabio, in arte Fab(b)io, nasce nel 2002 ad Atella, un piccolo paese della Basilicata è uno studente all’Accademia di Belle Arti di Brera, fotografo, visual artist e art director «tra uno spritz l’altro». Sin da bambino segue la sua vena artistica, creando braccialetti o cartoncini colorati, invece di giocare a calcio, l’attività per la società prediletta dai “maschietti”.  

La scoperta del mondo circostante inizia con una piccola fotocamera compatta digitale sempre con sé in gita alle elementari e cresce, durante l’adolescenza, quando riceve dai genitori una Reflex. I primi soggetti sono gli amici poi, decide di puntare l’obiettivo su di sé, per esprimere le proprie idee e ciò in cui crede, anche se significa andare contro il pensiero costituito. E lo specchio dei suoi ideali, esperienze dolorose e insegnamenti sono proprio le foto, scattate per esorcizzare sofferenza, delusioni e negatività subita.

Scatti, che rappresentano dunque una radiografia del suo mondo interiore e di quello saturo di preconcetti della comunità LGBTQIA+, tutti accompagnati da frasi ironiche. Ma non lasciatevi ingannare dall’ironia, perché ogni singola foto funge da esperienza di vita nella quale perdersi, ritrovarsi e riflettere.  

Le opere di Fabio Samela sono state esposte in personali, collettive e installazioni in giro per lo stivale: dalla mostra Gender Project a Milano, a quella presso Lo Spazio bianco di Pesaro, fino al progetto Fab(b) to be esposto a Roma e dedicato alla sua comunità. Progetti, che per Fabio rappresentano un’occasione per non stare “rannicchiato” nei pensieri e diventare quel modello voluto in passato e a cui aspira in futuro. 

Al motto “Ma una per cui la guerra non è mai finita” di Non sono una signora, Fabio non si ferma e ci racconta un bel po’ di curiosità sul suo percorso meravigliosamente sfacciato.  

Fabio Samela fotografo

Fabio Samela. Ph. Irene Topan

Se dovessi descrivere Fab(b)io chi sarebbe? 

«Io non sono cattiva, è che mi disegnano così! Diceva così Jessica Rabbit. Mi viene difficile descrivermi; in genere, sono sempre descritto dagli altri come una persona senza peli sulla lingua e forse un po’ troppo sfacciata (saranno gli anni passati a restare in silenzio che vogliono la loro rivalsa?). Eppure, sono un artista che lavora su di sé ed è proprio questa la parte difficile, non sapersi descrivere. Lascio che lo facciano le mie foto per me». 

Cosa rappresenta per te la fotografia? 

«Il mio modo di evadere, di concedermi quell’oretta per esplorarmi e ricucire alcune ferite che erano rimaste ancora troppo aperte». 

Fotografo preferito? 

«Ardua decisione, mi viene da dire Cindy Sherman per la sua abilità nel mettersi in gioco di fronte a chi la guarda e per la bravura con cui interpreta i personaggi che realizza nelle sue serie fotografiche. Io e Cindy siamo entrambi attori, se così vogliamo dire: lei si diverte a vestire i panni di altri, mentre io vesto i panni del me che vorrei essere in futuro. E come menzione d’onore, pur se non fotografa, vorrei citare Fumettibrutti, che mi ha ispirato con la sua crudezza nel raccontarsi, anche lei senza peli sulla lingua».

Come mai sei l’unico soggetto delle tue foto? 

«Ammetto, che sono stato accusato spesso di essere narcisista mettendomi sempre di fronte allo schermo (che sia un carattere rilevante di avere un Sole in Leone?), ma d’altronde ho deciso di raccontare la mia storia, i miei dolori e i miei insegnamenti. Onestamente, mi riuscirebbe difficile far interpretare a un’altra persona il mio ruolo nelle immagini.

E poi, diciamocela tutta, come diceva Frida Kahlo “Dipingo per me stessa, perché trascorro molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio”; io aggiungerei che sono reperibile 24/7, in qualsiasi momento in cui la mia mente partorisca qualcosa». 

Ami accompagnare le foto a pensieri scritti. Perché questa scelta? 

«Ho iniziato a scrivere sulle mie foto durante il primo lockdown, a marzo 2020 e avevo bisogno di esternare cosa provavo, o meglio, lo schifo che provavo per alcune cose che mi erano successe ai tempi. Prima scattavo unicamente nudi, il mio corpo in diverse circostanze e ambientazioni; non nego, che quegli anni passati a fotografarmi prima senza maglietta e poi spesso integralmente, senza nulla addosso mi ha aiutato ad avere più confidenza con il mio corpo, ma non bastava a far uscire ciò che sentivo.

Non mi ritrovavo più in quello che facevo e ormai le foto erano diventate solamente “delle belle foto”, nulla di più. Si cresce, le esigenze cambiano e così ho deciso anche di aiutare il lettore in quello che volevo comunicare, inserendo la mia scrittura (rendendo tutto ancora più personale); ma ciò non limita la libertà d’interpretazione del quale sono molto legato». 

Ci parli del tuo progetto Fab(b) to be?  

«Fab(b) to be nasce casualmente, non è mai stato “programmato”. Tornavo dalla prima mostra a Milano, la mente era ancora fresca di tematiche e dibattiti su questioni di genere e diritti umani per la comunità LGBTQIA+; cose che ho sempre sentito in maniera “esterna” e sulle quali non avevo mai avuto la possibilità di confrontarmi con altri. 

Avevo già gli scatti della mostra, altri già programmati, e sommandoli insieme sono diventati il mio manifesto sociale di rappresentazione, che ha già avuto l’onore di andare in giro con me; così, ho dato voce non solo a me come autore, ma anche a tutta la mia comunità. Ammetto che, a distanza di tempo, mi meraviglio di come ormai non provi paura nel parlare apertamente di tutto ciò; cosa che il piccolo me, in una realtà molto ristretta in cui abita, non avrebbe mai fatto. Credo che tutto questo sia un grandissimo passaggio per me». 

La difesa dei diritti LGBTQIA+ è predominante nella tua visione artistica. In che modo cerchi di dargli risalto? 

«Quando parlo, scrivo e fotografo della comunità LGBTQIA+ metto in risalto ciò che non vale solo per me, ma provo a far riconoscere anche altre persone in quello che faccio. Non sto parlando di una cosa strettamente personale e variabile come “cosa ho mangiato oggi a pranzo”; parlo a nome di tutti (o almeno credo per la maggior parte), di cosa ci accade e di come ci sentiamo e come ci fanno sentire gli altri. 

Parlo in modo che qualcuno non si possa sentire solo; se posso aiutare sono sempre in prima linea». 

Fra i temi che poni sotto la lente del tuo obiettivo anche quello di una mascolinità tossica. Come decostruire queste attitudini che vogliono l’uomo sempre forte e mai emotivo? 

«La cosa fondamentale è la comunicazione, senza ombra di dubbio. A distanza di tempo è diventato anche stancante il classico ripetersi di questi stereotipi gender, tutto per paura del “diverso”. Il genere, come anche la stessa classificazione del blu per i maschi e il rosa per le femmine è una credenza ormai tramandata dall’uomo per un sacco di anni e che non si vuole ancora abbandonare (spoiler, molti anni fa era il contrario, rosa per i maschietti e blu per le femminucce). 

Non si parla solo di mascolinità tossica purtroppo, ma anche di femminilità tossica. È davvero estenuante il continuo peso sociale di rispettare qualcosa di decifrato, da chi poi? Perché io uomo non posso piangere davanti a un film d’amore mentre, allo stesso tempo, la donna deve obbligatoriamente sgobbare in cucina e prendersi cura della prole? Queste continue discriminazioni, che siano per via dell’orientamento, del genere, della disabilità, della provenienza, del colore della pelle ecc… sono TROPPO.  

Chi è allora il sommo perfetto in tutta questa varietà? A chi dovremmo ambire per essere “accettati”?  

C’è bisogno di libertà e di espressione senza la continua ansia di poter sbagliare; e tutto questo sarà possibile solamente quando tutti (o almeno la maggior parte di noi) abbracceranno l’idea che ognuno ha le sue particolarità. La strada è lunga, ma ci stiamo lavorando». 

Fabio Samela fotografo
Nei tuoi scatti, dunque, possiamo notare questioni e problematiche sociali, accompagnate da un pizzico di ironia. Quanto è importante la leggerezza nelle tue foto? 

«Confesso di essere una persona molto pesante, che si tratti dei miei diritti o di qualsiasi altra cosa, se la voglio ottenere faccio di tutto pur di averla. Ma la pesantezza non sempre porta a qualcosa di concreto. Le mie foto parlano di molti temi difficili da digerire, che siano temi sociali ma anche banalmente delle delusioni d’amore, perciò cerco di “camuffare” tutto con un velo di ironia, come le classiche strisce dei quotidiani in cui la satira verso la politica è all’ordine del giorno.  

Guardi una mia foto, ti fai una risata sulle mie sciagure e poi pensi -ah cavolo, però ha ragione/però questa cosa l’ho passata anche io/certo che non deve essere facile- e così via. Sto iniziando ad affrontare così la mia vita, anche se non so quanto sia salutare ridere ogni volta che qualcosa non va. Forse è solo un mio modo per non chiedere aiuto, ma ci stiamo lavorando». 

Quando devi realizzare un nuovo scatto pensi prima per immagini o per parole? 

«Dipende dai casi. Può essere che prima mi venga in mente la scena da fotografare, per poi corredarla con una frase d’effetto o tutto il contrario: dalla frase all’immagine, ma in un modo o nell’altro non rimangono mai sole». 

Fabio Samela fotografo

Cosa non può mancare in un tuo scatto? 

«Sicuramente, le emozioni. Le mie foto nascono da numerosi calci sui denti; quello che faccio è un modo per esorcizzarli e per ricordali. Mi immagino un giorno, a riguardare le mie foto e ripensare a cosa c’era dietro e poter dire di averlo superato.

La cosa più bella è quando qualcuno, mi spiace per loro, si riconosce in quello che fotografo. Mi spiace molto pensare che qualcun altro abbia vissuto la mia stessa sventura, però vediamo il lato positivo: se a qualcuno si riconosce in ciò che faccio, sicuramente ho centrato il mio obbiettivo, e magari così possiamo anche sentirci entrambi meno soli no?» 

Ad Altro spazio d’arte hai dichiarato «Le mie idee nascono sicuramente dal non riuscire ad addormentarmi la notte». Cosa ti tiene sveglio? 

«I continui pensieri, che siano negativi o positivi. Il mio cervello è una macchina no stop; se non sto pensando, sto sognando a cosa fare appena sveglio. Però, ammetto che questo mi stanca molto anche a livello emotivo e mi impedisce, il più delle volte, di godermi le cose quando accadono, perché ormai ciò che mi potrebbe succedere è già successo nella mia testa anche una settimana prima».  

Se dovessi dire qualcosa al te adolescente, quale sarebbe? 

«Nell’armadio si sta stretti, vedi di uscire che appena inizi a diventare un metro e ottantatré non potrai stare a lungo con le gambe piegate al petto. No, davvero, non potrai mai sapere cosa ti sta aspettando per quanto possa essere difficile, tutto ha una fine, sta solo a te iniziare». 

Come vedi il tuo futuro? 

«Sono una persona tanto indecisa, cambio spesso idea da quando ero piccolo, e mi meraviglio come sia riuscito ad arrivare fin qui oggi; se vogliamo farci una risata, da piccolo dicevo di voler fare il fioraio e, invece, mi ritrovo a correre di fronte all’inquadratura appena faccio partire l’autoscatto di dieci secondi. Il futuro mi spaventa, ma a giorni alterni. Vorrei solo diventare ogni giorno che passa, il modello da seguire di cui avevo bisogno molti anni fa». 

Prossimo progetto? 

«Ne ho troppi, come ho detto, ora è tempo di rialzarmi; per il momento, mi auguro solo che possiate vedere tutto ciò che ho da offrire in qualsiasi modo o struttura, così da potervi fare una risata dal sapore amaro come dulcis in fundo…Cosa ci volete fare, adoro provocare!». 

 

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