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Diritti umani

Art. 32: un diritto costituzionale in pericolo?

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“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.      Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

di Antonio Virgili pres. comm. Cultura Lidu onlus

Probabilmente mai come negli ultimi anni la tutela della salute è stata al centro dell’attenzione pubblica. Le norme contenute nell’articolo 32 della Costituzione sono state spesso discusse e citate – non di rado a sproposito – per via delle azioni volte al contenimento della pandemia da Covid-19.   La prima frase dell’articolo 32 afferma che la Repubblica tutela la salute sia come fondamentale diritto dell’individuo sia come interesse della collettività.    La norma quindi anzitutto indica la salute come «diritto fondamentale», ed è l’unica volta che si trova tale aggettivo – “fondamentale” – nell’intero testo della Costituzione dove invece più volte si usa il termine «inviolabile».

Tale diritto viene riconosciuto ad ogni individuo, che si tratti di cittadino italiano, straniero, apolide, regolare o clandestino, senza alcuna discriminazione.   La salute viene poi riconosciuta come interesse della collettività, lo Stato ha cioè il dovere di tutelare la salute della popolazione, salvaguardandola da epidemie, pandemie e da ogni altra fonte di pericolo, naturale o generata dall’uomo (si pensi all’inquinamento ambientale).

La logica e la morale seguite sottolineano che il benessere del singolo non prescinde dal benessere del gruppo in cui questi si inserisce.  È il concetto di società, o forse meglio si direbbe di comunità, che collega tutto e tutti: ciò che succede ad un individuo si ripercuote intorno a lui.    In una sola norma, la Costituzione afferma che la salute è diritto del singolo e, insieme, interesse della collettività: le due cose vanno strettamente congiunte. Il concetto di tutela della salute della collettività deve essere inteso anche come “diritto ad un ambiente salubre”.

Da qui la necessità di prestare attenzione a princìpi come lo sviluppo sostenibile, la prevenzione ambientale, il risarcimento da parte di chi crea un danno all’ambiente e la sistemazione dei danni già causati.    Fra l’altro, la nostra Costituzione è stata la prima, fra quelle europee, a riconoscere e tutelare il diritto alla salute sia nella sua valenza individuale che sociale.

La sofferenza e la malattia spingono a considerare l’essenziale e si ancorano alla necessità di sopravvivenza.  I costituenti stabilirono quindi che il diritto alla salute non è solo inviolabile ma «fondamentale» e che lo stesso va garantito a ogni essere vivente. Da ciò deriva che l’Italia non poteva che istituire ciò per cui è famosa nel mondo: un sistema sanitario gratuito per ogni cittadino, salvo il pagamento di un contribuito ridotto per determinate fasce di reddito.

Con la riforma sanitaria del 1978 (Legge n. 833/1978) si è istituito il servizio sanitario nazionale che ha esteso l’obbligo dello Stato di assicurare le prestazioni sanitarie e farmaceutiche non solo agli indigenti ma a tutta la popolazione.     La legge 104 del 1992 ha poi tutelato le persone con disabilità e sempre in ambito di tutela dei diversamente abili, esistono norme sull’abbattimento delle barriere architettoniche.   Il diritto alla salute implica anche il diritto a non essere curati, non si può costringere una persona a un trattamento sanitario che non vuole. Tant’è vero che il paziente che si trovi ricoverato in ospedale può richiedere di essere dimesso in qualsiasi momento, anche contro il parere dei medici.

Proprio per garantire il diritto a non essere curati, prima di ogni trattamento medico, il paziente deve essere ben informato della natura dell’intervento, delle sue conseguenze, dei rischi che esso comporta, delle possibilità di cure alternative.    In base all’articolo 32 della Costituzione, solo una Legge può obbligare il cittadino a un trattamento sanitario (il cosiddetto TSO).  Tuttavia, come chiarito dalla Corte Costituzionale (sent. n. 307/1990), solo la tutela dell’interesse alla salute collettiva può giustificare la compressione di un diritto tanto ampio come quello all’autodeterminazione dell’individuo. Il che dimostra ancora una volta come, secondo la nostra Costituzione, le libertà individuali trovino un limite nel bene della società. In assenza di interesse alla salute della collettività nessun trattamento sanitario può essere oggetto di imposizione. Ciò succede spesso nel caso di soggetti ritenuti pericolosi per via di malattie mentali, abusi di psicofarmaci o droghe.

Infine, l’articolo 32 precisa che la Legge non può imporre trattamenti sanitari obbligatori che siano contrari al «rispetto della persona umana». Per capire cosa si intenda con questa espressione bisognerebbe leggere i lavori preparatori alla Costituzione. Il riferimento è a tutte quelle pratiche (si pensi ai cosiddetti “esperimenti” dei nazisti) come la castrazione, la sterilizzazione, l’elettroshock che potevano compromettere in modo permanente le funzioni fisiche dell’individuo.

Nonostante tutto ciò e le diverse eccellenze presenti, il sistema sanitario italiano ha pure molte contraddizioni, con ospedali efficienti ed attrezzati (prevalentemente al Nord) ed altri carenti di personale ed a volte fatiscenti (prevalentemente al Sud).  La cosiddetta malasanità è una piaga, della quale ampia responsabilità è l’autonomia regionale che si è sommata ad una gestione affidata a politici più che a tecnici e medici.  Con il dare potere di autogestione agli enti locali si è incrementato il divario che già sussisteva, in altri ambiti, tra aree ricche e aree depresse del Paese. E se una frattura tra settentrione e meridione potrebbe essere forse tollerata in alcuni settori economici, non può esserlo invece nel settore sanitario dove, come detto, non si è nell’ambito degli interessi patrimoniali ma dei «fondamentali diritti della persona umana».

Diversi elementi di degrado e rischio del sistema sanitario si sono oramai cumulati nel tempo. Si potrebbe partire dal numero chiuso per l’accesso ai corsi universitari sanitari (e non solo a quelli), procedura contraria ai principi costituzionali, che ha ostacolato la mobilità sociale verticale, ha dato un improprio ed inopportuno ruolo di filtro al mondo accademico ed ha prodotto la carenza di specialisti e di personale che oggi si lamenta.

Poi la sempre più accentuata frammentazione della regionalizzazione, che determina -sempre contrariamente allo spirito della Costituzione – non uguale trattamento per tutti i cittadini, una offerta di servizi difforme territorialmente, una eccessiva vicinanza (ingerenza) del potere politico regionale nella gestione delle attività sanitarie, esse stesse affidate a persone per scelta politica più che per competenza tecnica.  Una eccessiva “disponibilità” alle convenzioni con strutture private, che avrebbero dovuto sopperire a limitate carenze delle strutture pubbliche e non sostituirsi ad esse in modo ampio e diffuso. Questa è una strisciante privatizzazione che, avendo finalità solo economiche, riguarda prevalentemente attività a minor rischio sanitario e più lucrative.  Si è lasciato degradare, come in altri settori, quanto è pubblico, per poi indicarlo come “irrecuperabile” e quindi da eliminare, invece di migliorarlo, potenziarlo e garantirlo.

Il personale sanitario pubblico, inoltre, non è stato valorizzato, non sempre selezionato adeguatamente, ben organizzato, tutelato.  I molti operatori validi sono stati lasciati isolati, o ignorati, a vantaggio di quelli, forse meno validi ma rampanti portatori di logiche mercantili.  Il mercato, nel senso riduttivo e peggiore del termine, si è fatto largo nelle strutture sanitarie, dove sembra non debba contare la qualità del servizio, il benessere delle persone, l’accoglienza.  Si è data priorità ai numeri, ai dimessi, alle durate del ricovero, ai costi dei farmaci, alle logiche di un efficientismo teorico e burocratico che ha impoverito il reale spirito che dovrebbe pervadere l’assistenza sanitaria, cioè i luoghi delle persone malate, confuse, a volte in stato di inferiorità.

Il giuramento ippocrateo sembra solo un paravento d’altra epoca, che nasconde, ma sempre meno, prassi e logiche da esso molto distanti, se non opposte.

Come una recente inchiesta giornalistica realizzata da Dataroom, ha descritto, le carenze di personale nelle strutture sanitarie ha portato molte di esse ad appaltare a cooperative o società esterne parte dei servizi, con pagamenti a gettone di quel personale, con oltre 100.000 turni in sole 4 regioni del Nord.  Le disfunzioni risultano evidenti sia in termini economico-organizzativi che di qualità e disponibilità dei servizi.  Nel 2012 ben 9 milioni di italiani avevano dichiarato di non aver potuto accedere, per ragioni economiche, ad alcune prestazioni sanitarie di cui avevano bisogno (da uno studio del Censis).

Ciò si somma alla scarsa attenzione per i presidi ed il personale di pronto soccorsoemergenza, attività essenziale per garantire quotidianamente sicurezza alla popolazione.   I problemi del pronto soccorso sono da individuare nel forte aumento, ancora sottovalutato, dei pazienti anziani, che richiedono una risposta del sistema sanitario nuova rispetto al passato, a partire dall’emergenza, alla contemporanea carenza di medici formati per svolgere attività di pronto soccorso, per la miopia del numero chiuso al corso di laurea in medicina, alla riduzione delle assunzioni che ha bloccato il sistema per anni nell’ottica di un risparmio che ha prodotto invece un costo altissimo, e alla esiguità dei posti di specializzazione in medicina di emergenza–urgenza.

E’ pure vero che i problemi del sistema sanitario nazionale, con la carenza di medici e infermieri, il sovraffollamento dei pronto soccorso e i turni di lavoro usuranti a cui sono costretti gli operatori sanitari del settore pubblico non sono una peculiarità italiana perché i sistemi sanitari di gran parte dell’Europa stanno vivendo un periodo complesso, dopo essere stati messi fortemente sotto stress dalla recente pandemia.

In Italia si prevede una crescita della componente pubblica della spesa sanitaria a causa dell’invecchiamento demografico, un incremento della spesa pubblica anche per l’aumento della spesa per “la non autosufficienza” ovvero per le spese di indennità di accompagnamento, per le pensioni, per gli assegni di invalidità civile.   Inoltre, la metà dei medici attivi ha un’età superiore ai 55 anni: tutto ciò crea preoccupazioni per il futuro sanitario del Paese.    In termini percentuali di spesa sanitaria, l’Italia è passata dal 7,2% del 2010 al 6,8% del pil nel 2018. In valore assoluto, si è passati da 113,1 a 115,4 miliardi, pari a un incremento di appena il 2%, nettamente inferiore ad altri Paesi. Nel frattempo, la popolazione residente è cresciuta di quasi un milione e mezzo di abitanti, per cui la spesa pro-capite risulta essere rimasta stabile o, addirittura, leggermente diminuita.  Il problema è aggravato dal fatto che, nello stesso periodo, l’inflazione cumulata nel nostro Paese sia stata del 10,3%. Questo significa che, in termini reali, è stato come se i governi avessero tagliato la spesa sanitaria di un 8% in 8 anni. Allarmante specialmente se si considera che la sanità si caratterizza per prezzi mediamente in crescita più dell’inflazione generale, in conseguenza delle nuove tecnologie, avanzate e costose, che di anno in anno vengono impiegate per offrire un servizio sempre più efficace.

La spesa sanitaria crebbe in Italia del 66% circa, tra il 2000 e il 2008, incremento dovuto solo in parte all’invecchiamento demografico, perlopiù si collegava alla riforma costituzionale del 2001, che tra le competenze ripartite tra Stato e regioni includeva proprio la sanità: le regioni spendevano e lo Stato pagava.  Con un ulteriore corto circuito burocratico-istituzionale innescato da un sistema Paese con responsabilità diffuse, che inevitabilmente danno vita a una deresponsabilizzazione generale.  Negli ultimi anni, oltre al blocco degli stipendi pubblici, che ha riguardato anche il personale sanitario, ci sono pure stati tagli veri e propri, basti considerare i posti letto soppressi e i numerosi piccoli ospedali chiusi senza avere potenziato i rimanenti.

Una gestione più aziendale non equivale però a risparmi sulla salute dei cittadini, ma ad un’offerta che riesca a soddisfare la domanda in condizioni di maggiore efficienza economica.    Il contesto macroeconomico generale ha pure il suo peso: l’Italia sta sotto-finanziando il suo Sistema Sanitario Nazionale, giustamente considerato fattore di prestigio, perché non cresce, o cresce poco, e non riesce ad aumentare adeguatamente di anno in anno la ricchezza, mentre i costi salgono.  La pseudo-politica si è concentrata per anni sul presunto problema degli accessi inappropriati, ma la domanda di salute raramente è inappropriata, può esserlo in risposta ad un sistema incapace di adeguarsi alle trasformazioni sociali in atto, di fare concreta prevenzione e di ridurre gli sprechi ben noti.

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