Diritti umani
‘Ndrangheta addosso’ di Cosimo Sframeli vince il Premio Letterario Internazionale “N. Giordano Bruno”

Quarant’anni di Calabria per il militare paracadutista dell’Arma dei Carabinieri e la ricostruzione del periodo più buio della Calabria
Un pezzo di storia, quello dei sequestri e degli omicidi illustri, da riscattare. A farlo, scrive Cosimo Sframeli, possono essere solo uomini e donne di Calabria con coraggio e serena conoscenza del fenomeno.
Nato a Messina, laureato in Scienze Politiche, ora in pensione, presta servizio nell’Arma dei Carabinieri dal marzo 1980.
La sua destinazione dal 1982 è la Calabria in cui, proprio in quel periodo, le indagini principali sono volte a contrastare i reati di sequestro di persona, di traffico internazionale di sostanze stupefacenti, guerre di mafia e faide, riciclaggio, estorsioni.
Un impegno che sicuramente segna il giovane maresciallo che, per l’ esperienza maturata sul territorio e con il grado raggiunto di Capitano, diverrà Consulente della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali, anche straniere, e consulente del regista Francesco Munzi per il film “Anime Nere” tratto dall’ omonimo romanzo di Gioacchino Criaco.
Medaglia Militare d’oro al merito di lungo comando, concessa dal Ministro della Difesa, diploma di benemerenza con medaglia concessa dal Ministro dell’Interno, Medaglia d’Oro Mauriziana al merito concessa dal Presidente della Repubblica oltre all’onorificenza di Cavaliere e Ufficiale dell’ordine, i riconoscimenti per un lavoro integerrimo.
Il testo di cui oggi dialoghiamo con l’autore è un’accusa ferma a problemi nazionali ed antichi di cui la Calabria è solo un riflesso. Parlarne, oggi, in un periodo in cui sicuramente la povertà è statisticamente aumentata è molto importante poiché è tra ignoranza e povertà che il malaffare prolifica. Cosa ritiene possa accadere, in questa nazione ed anche in questa regione impoverita e disillusa?
Negli anni settanta, la provincia di Reggio Calabria, è sotto la morsa della ’ndrangheta e gli organi di giustizia non conseguono risultati apprezzabili. Anni particolari per l’Italia, straordinari per le nuove dinamiche criminali nella provincia di Reggio Calabria. La ‘ndrangheta si organizza per stare a passo coi tempi e per proiettarsi oltre i confini, muta pelle e permette il nascere, accanto alla vecchia presenza mafiosa legata alla terra, di altre modalità di intervento mirate ad investire nelle istituzioni, nella società e nel mondo politico-economico-finanziario.
Il salto di qualità si compie grazie ai fitti rapporti intessuti con gli esponenti di forze politiche, anche con responsabilità di governo, e all’assunzione, da parte delle cosche, di una funzione di sorveglianza rispetto all’elettorato.
E proprio quando la Calabria dà segnali di crescita, la mafia intuisce il potenziale economico e riserva soltanto a se stessa ogni possibilità di sviluppo, produzione e ricchezza, incidendo così negativamente sulle condizioni economiche e sociali delle popolazioni calabresi e mostrandosi per quel suo essere “sovrastruttura parassitaria e, nello stesso tempo, infrastruttura”. La mafia diviene costume e mortifica qualsiasi sforzo della magistratura, dell’apparato investigativo, delle leggi, vanificando interi processi.
In questa lotta qualcosa non ha funzionato, la politica non ha mai dato risposte e discutibili operazioni impediscono di concepire una strategia di penetrazione culturale che conduca a risultati durevoli per la Calabria. Gli attacchi e le polemiche dei professionisti dell’ “Anti” hanno creato un effetto rimbalzo che ha dato ancor più rilevanza al fenomeno criminale. I risultati della battaglia culturale, mai eclatanti, dividono la storia in un prima e un dopo. La battaglia contro l’omertà della storia non ha certo trasformato il mondo come lo conosciamo, ma perlomeno ha rotto l’argine del silenzio.
Il nemico dei calabresi, lei disse in un’intervista, è l’assenza dello Stato Sociale e la sottovalutazione da parte delle istituzioni del fenomeno. Molte indagini svoltesi attualmente hanno dimostrato che gli “adepti” sono addirittura all’interno delle istituzioni che dovrebbero garantire il cittadino. Già nel suo libro, che narra di più di un ventennio fa, lei scriveva in relazione alle indagini, “Nessuno ci premiò, eravamo oggetto di interrogazioni parlamentari e di quant’altro servisse ad ostacolarci, dell’insensibile distacco di tanti colleghi e superiori, dei consueti attacchi per fermarci.” Vi è stato da allora qualche cambiamento?
Esistevano e continuano ad esistere tre tipi di mafiosi ’ndranghetisti. Quelli che nascono in una famiglia di ‘ndrangheta obbligati alla militanza per sempre. Quelli che si avvicinano per bisogno economico o per ambizione e gli stupidi. Questi ultimi sono gli orfani, i disadattati, i fragili, vittime della società adescati con promesse di ogni genere e, protetti dall’organizzazione criminale, che li “promuove” a uomini della ‘ndrangheta. Questi saranno pronti a commettere qualsiasi azione delittuosa, anche la più raccapricciante, pur di compiacere i capi.
Forse un piccolo cambiamento potrebbe esserci se, oltre all’azione investigativa e giudiziale, fosse promossa dallo Stato una giustizia sociale atta a sanare i bisogni materiali e culturali per soddisfare e orientare il pensiero oltre i confini della mentalità criminale.
La Calabria è il riflesso estremo e violento di problemi nazionali antichi ed evidenti che si sono sviluppati nel tempo. La perdita di competitività e la crisi di fiducia che serpeggiano nel Paese si trasformano, nella sua parte più debole, in tragedia. La speranza continua ad essere nelle donne e negli uomini che ogni giorno si prodigano con fatica a ricostruire una società più giusta.
L’epoca dei sequestri illustri cessa o meglio alla ndrangheta, per i sequestri, si sostituiscono i terroristi. Forse è l’unica modifica a fenomeno fortemente legato ai “poteri”, con una interconnessione al territorio che ormai travalica i confini regionali e nazionali, il “sistema organico di collegamento” di cui lei parla nel suo libro e che ha radici antiche?
La storia ci insegna che non basta solo dichiarare guerra per vincere. Si devono approntare armi e mezzi adeguati per avere buone probabilità di riuscita.
Senza coscienza e volontà non bastano i programmi di riforme legislative, degli ordinamenti e i provvedimenti economici. Non sono le leggi a fare gli uomini, ma viceversa. Le mafie si affrontano realizzando una forte coesione della società libera, culturalmente preparata cioè con uomini liberi dal bisogno e dalla paura.
Un’autentica utopia per questa terra disordinata, disarmonica, chiassosa, con una certa predilezione per la polemica, per la chiacchiera; con la tendenza a privilegiare un sistema di tipo feudale sempre all’erta per rinnovare giuramento di fedeltà ad un qualche principe, anziché impegnarsi per la costruzione di una società di onesti e di capaci. Perché, parafrasando Pavese: “Lottare stanca”. E dove regna l’incertezza del Diritto il crimine organizzato riesce ad imporre la sua concezione di vita.
Scriveva Corrado Alvaro nel 1955: “La mafia non è un semplice problema di polizia, né si tratta di mettere sotto accusa, come sta avvenendo adesso, e in stato di assedio, una intera provincia. La norma per una azione seria potrebbe dettarla l’esame di come si è comportata la classe dirigente di cinquant’anni”. Le mafie sono vecchie quanto il mondo e sono parte del mondo con le storie di prepotenze, di usurpazioni e di violenze di ogni natura, storie che ancor oggi sono scritte anche nei salotti e tra i dotti.
La cultura della legalità, che impone il rispetto di regole e dell’altro, sembra non reggere il paragone con quella dell’illegalità che invece garantisce nell’immediato il soddisfacimento dei bisogni. Quanto è duro scontrarsi con questa forma di realtà e cosa può aiutarci nell’indirizzare verso la legalità i giovani sempre più pessimisti verso il futuro?
Il figlio primogenito di un boss della Locride, il dott. Vincenzo Carrozza, è oggi un affermato medico, volontario nelle missioni umanitarie all’estero. La sua difficile vita è stata orientata al riscatto e il periodo delle scelte è stato progressivo ed esistenziale. In giovinezza, dopo essere stato scarcerato, scappa dalla sua terra per evitare di cadere nei perversi compromessi dell’essere servo. Fuggire via per poter essere uguale agli altri ed avere le stesse possibilità di vita, per non essere guardato con sospetto, per non essere egli stesso terreno fertile d’improvvisati burattinai. Consegue la laurea in medicina, crea una sua famiglia, lontano dal luogo in cui sarebbero contati i suoi privilegi di nascita e la prevaricazione mafiosa.
E’ stato un coraggioso netto rifiuto al navigare nelle paludi della giungla del sistema criminale, che adesso fermamente osteggia con pensieri, azioni e preziose pubblicazioni, coltivando dentro il cuore orizzonti più vasti e alti, nonostante il suo cognome, il paese di nascita e la sua storia. Una storia emblematica che potrebbe essere la speranza di ogni ragazzo di Calabria.
Un’attualità incredibile quella che ci si ritrova ad osservare leggendo il suo libro che parla degli anni ‘80. Viene da chiedersi se la volontà di distruggere “il sistema” sia reale. Cosa ne pensa?
‘Ndrangheta, omicidi, guerre di mafia, droga, emigrazione, lavoro che non c’é. E’ convinzione comune che il male non abita solo in Calabria, così come la violenza, il destino, la morte. Nella Calabria prevale la testa criminale saldata ad un corpo economico, politico, istituzionale connivente e ubbidiente.
In una società che somiglia alla vecchiaia piuttosto che alla giovinezza, col tempo è cambiato poco. Si è permesso fosse divorata ogni bellezza, sventrando, deturpando e distruggendo questo pezzo di sud al punto che spesso ci si vergogna di esibire un’inflessione che è diventata, in tutto il mondo, la colonna sonora della violenza, del sottosviluppo, della rozzezza.
Invece in Calabria alcuni uomini e donne sono in cammino, senza guide, sforzandosi di comprendere le ragioni storiche ed antropologiche della scelta di campo dei malavitosi, rinnovando la speranza illuministica attraverso il sapere. E sono gli intellettuali che dovranno indicare la via, ribellandosi alla crescente uniformità del nostro mondo, perché “non è la verità che arma l’intolleranza ma la pretesa del suo monopolio, la presunzione di esserne i portatori esclusivi”.