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Diritti umani

Le Mutilazioni Genitali Femminili e i reati culturalmente orientati

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La presenza di persone e comunità dalle caratteristiche sociali e culturali molto diverse su diversi territori non solo europei sta creando interpretazioni divergenti, circa le modalità di valutazione ai fini giuridici di alcuni comportamenti e azioni.

Di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus Odv

La percezione che le società di molti Paesi, europei e non solo, stiano trasformandosi per l’apporto di elementi culturali e valutativi propri di altre culture è sempre più diffusa sebbene, erroneamente, si tenda a individuarne le cause prevalentemente nei flussi migratori recenti. La presenza di persone e comunità dalle caratteristiche sociali e culturali molto diverse sta comunque creando delle difficoltà, o almeno delle interpretazioni divergenti, circa le modalità di valutazione ai fini giuridici di alcuni comportamenti e azioni.

Nonostante la ulteriore omologazione di alcuni elementi culturali, conseguente alla globalizzazione, si è posta all’attenzione degli operatori la categoria dei cosiddetti “reati culturalmente orientati” (o “culturalmente motivati”), ovvero quei fatti che costituiscono reato nell’ordinamento italiano ma che al contempo sono espressione di principi, valori e consuetudini riconosciuti dal gruppo etnico cui appartiene il reo. Preliminare all’analisi della fattispecie di “reato culturalmente motivato” è un cenno alla definizione del concetto di cultura: senza tale definizione risulta troppo vago ed indeterminato l’esame di tale tipologia di illecito. Nelle scienze sociali il termine “cultura” ha un campo di applicazione notevolmente ampio: può indicare ad esempio l’insieme delle consuetudini di un determinato gruppo oppure può, più estensivamente, identificare il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un dato gruppo etnico.

In una definizione più giuridica del concetto di cultura, tale termine diviene sinonimo di “popolo o comunità che occupa un determinato territorio e che condivide una data lingua e tradizione”. Ne consegue che il concetto di “reato culturalmente motivato” ruoterà esclusivamente sulla diversità culturale che connota i gruppi etnici diversi da quello prevalente (identificato in base alla detenzione del potere politico e legislativo). Ovvero, nella definizione oggi maggiormente adottata di tale tipo di reato: un “comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo culturale dell’agente è condonato, o accettato come comportamento normale, o approvato, o addirittura è sostenuto e incoraggiato in determinate situazioni”.

Tale tipo di reato, nei termini sopra riportati, pone problemi di ampia portata poiché da un lato lascia intravedere la possibilità che ogni gruppo culturale possa avere regole diverse da quelle degli altri gruppi, dall’altro apre ad un rischio di inutile relativizzazione anche dei diritti fondamentali. D’altro canto, già l’uso diffuso dei termini “cultura dominante” e “cultura minoritaria” non è neutro, ma sottolinea un dominio su delle minoranze, assunzione non necessariamente vera perché assente nei Paesi culturalmente omogenei. Per portare un esempio, se in un dato Paese di origine le bambine non possono frequentare la scuola quel dato “culturale” dovrebbe essere garantito anche altrove?

Con ciò sembrerebbe si voglia riportare l’evoluzione giuridica e normativa indietro o avanti nel tempo storico e geografico a seconda delle circostanze. Poiché nel mese di febbraio 2 ricorre la Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili, ci si può soffermare in particolare su queste tipologie specifiche di fattispecie giuridica. Concretamente, se un gruppo etnico presente in Italia rivendica tale uso come proprio della cultura di appartenenza, o per motivazioni religiose, si dovrebbe consentire la mutilazione sebbene essa sia vietata da norme italiane? Si tratta di un tema che oggi stranamente appare più dibattibile di altri, forse per l’usuale separatezza delle conoscenze e scienze, per cui da un lato ci sarebbe l’esigenza di riconoscere i “costumi” e le “usanze” proprie di alcune culture differenti dalla nostra (diritto a conservare e tutelare la propria cultura) e, dall’altro, il rispetto dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale e presidiati dalle norme penali. Il quesito risulterebbe: in che misura un uso tradizionale consolidato come le mutilazioni genitali, o la “vendita di bambine”, va consentito, in nome del diritto a conservare gli usi della propria cultura? Sebbene, forse, meglio sarebbe chiedersi se sia corretto e abbia senso porre il quesito in questi termini. Grosso modo, si possono individuare le seguenti sottocategorie di reati, di vario tipo e gravità, riconducibili a motivazioni culturali:

a) omicidi, lesioni personali e maltrattamenti commessi in contesto familiare dal genitore, marito, capofamiglia che, in virtù della sua cultura d’origine, si ritiene depositario, nei confronti degli altri membri della famiglia, di poteri e prerogative, da tempo non più riconosciutigli dalla cultura (e dalla legge) italiana;

b) omicidi e lesioni a difesa dell’onore, che scaturiscono da un esasperato concetto dell’onore familiare o di gruppo, il quale può spingere a vendicare “col sangue” l’uccisione di un membro della propria famiglia o del proprio gruppo (cd. “vendette di sangue”); altre volte, invece, viene in rilievo il concetto di onore sessuale, offeso da una relazione adulterina o da altra condotta ritenuta riprovevole;

c) reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, commessi da soggetti che invocano a propria scusa e/o giustificazione le loro ataviche consuetudini concernenti i rapporti adultiminori;

d) reati sessuali, le cui vittime sono ragazze minorenni che nella cultura d’origine dell’imputato non godono di una particolare protezione in ragione dell’età, nella supposizione di una loro maturità psico-fisica precocemente raggiunta, o che risultano legate all’imputato da un cd. “matrimonio precoce”, celebrato secondo la legge o le consuetudini del gruppo d’origine; altre volte, vittime sono donne adulte alle quali la cultura dell’imputato – per il solo fatto di essere mogli o, tout court, persone di genere femminile – non riconosce una piena libertà di autodeterminazione in ambito sessuale;

e) mutilazioni o lesioni genitali femminili, circoncisioni maschili, tatuaggi estesi a cicatrici, o deformazioni ornamentali, suggeriti, ammessi o addirittura imposti dalle convenzioni sociali, dalle regole religiose o dalle tradizioni tribali del gruppo culturale d’origine;

f) reati in materia di stupefacenti aventi per oggetto erbe, bevande, misture il cui consumo è ritenuto assolutamente lecito e, talvolta, addirittura raccomandato, per motivi rituali o sociali, nel gruppo culturale d’origine;

g) violazioni dei diritti dell’infanzia, come nel caso dell’avviamento precoce dei minori al lavoro o all’accattonaggio, o del rifiuto dei genitori di mandare i figli a scuola a causa di riserve di tipo religioso-culturale rispetto alla scuola cui questi sono stati assegnati;

h) infine, reati concernenti l’abbigliamento rituale, riguardanti casi in cui l’usanza tradizionale di portare obbligatoriamente un indumento (ad esempio, il burqa delle donne musulmane) o un amuleto simbolico (ad esempio, il kirpan degli indiani sikh) è stata valutata alla luce della sua possibile rilevanza penale rispetto ad alcune figure di reato poste a tutela della sicurezza pubblica.

Se è vero che il diritto del singolo alla tutela della propria identità culturale e religiosa costituisce il precipitato giuridico soggettivo del regime di pluralismo confessionale e culturale, garantito dalla Costituzione italiana e da diverse fonti sovranazionali, tuttavia non si dovrebbe parlare di “problematicità” di una condotta quale l’infibulazione, che è vietata poiché lede la persona nel tempo, come dimostrato sia da ricerche mediche che psico-sociali.

Non dovrebbe sussistere, come alcuni ipotizzano, una antinomia tra una norma penale e una regola di matrice culturale, che oltretutto si potrebbe anche descrivere come conflitto tra un ordinamento di tipo consuetudinario tradizionale e uno di tipo statuale. Non solo, ma il quesito rimette in discussione il principio dell’eguaglianza davanti alla Legge e porrebbe sullo stesso piano contenuti, è il caso di dire, culturalmente poco compatibili per noi europei, un retaggio storico di periodi per noi medievali, nei quali si condannava al rogo per eresia, si torturavano le streghe, si vendevano i bambini, le donne erano considerate esseri inferiori, ecc. La Corte di Cassazione è stata più volte chiamata ad esprimersi in merito, tra le pronunce più recenti quella del 2021 [n. 30538 del 4/8/2021], che ha avuto l’orientamento, conformemente alle precedenti pronunce, di dover escludere in radice la configurabilità di una causa di giustificazione di matrice culturale (c.d. scriminante culturale).

La posizione del Collegio non deriva, però, tanto dal rigetto in senso aprioristico del relativismo multiculturale, bensì dall’adesione ad un diverso approccio, costituito dal bilanciamento tra il diritto (inviolabile) a non rinnegare le proprie tradizioni (culturali, religiose, sociali) ed i valori offesi o posti in pericolo dalla condotta. In altri termini, va esclusa «la configurabilità di una “scriminante culturale” in tutti quei casi in cui l’esercizio del diritto dell’agente a rimanere fedele alle regole sociali del proprio gruppo identitario si traduce nella negazione dei beni e dei diritti fondamentali configurati dall’ordinamento costituzionale presidiati dalle norme penali violate. Senza recedere dal menzionato cardine argomentativo, la Cassazione ha mantenuto un possibile ambito di rilievo del fattore culturale.

Ovvero, il giudice dovrà tenerne conto nella quantificazione della pena, ai sensi dell’art. 133 del c.p., commisurando il trattamento sanzionatorio all’esigibilità del comportamento conforme al precetto penale. Alcune delle sottocategorie di reato culturalmente motivato, sopra descritte, comportano una grave offesa a beni fondamentali della persona: vita, incolumità fisica, libertà di autodeterminazione in ambito sessuale, libertà morale, ecc.

Quando oggetto di giudizio sono reati siffatti, la giurisprudenza più recente correttamente richiama la teoria dello 4 “sbarramento invalicabile”, da ultimo formulata nei termini secondo i quali nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza (quali i diritti inviolabili dell’uomo garantiti e i beni ad essi collegati tutelati dalle fattispecie penali), che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che tali diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero, pongano in pericolo o danneggino. Quindi, se è vero che è opportuno che il legislatore consideri il mutamento del costume e sentire sociale (spesso si cita il caso del “comune senso del pudore”, sebbene il tema della sessualità risulti sempre fortemente restrittivo), ciò non apre all’accesso a progressive violazioni.

Anche tale approccio è stato però a volte messo in discussione, banalmente affermando che pure i diritti inviolabili sono culturalmente definiti, e sollevando il dubbio che gli immigrati siano “costretti” a conformarsi a valori occidentali a loro estranei, oltretutto fingendo di ignorare che tra tali valori vi è indubbiamente anche quello del pluralismo e della tolleranza. Suscita perplessità anche una ulteriore ipotesi di soluzione, cui anche una sentenza della Cassazione penale ha fatto cenno, soluzione di stampo nordamericano, secondo la quale si potrebbe ipotizzare una sorta di procedura standardizzata per i reati culturalmente motivati che valuti:

A) l’entità del bene e il grado del danno;

B) la natura della norma culturale di riferimento, se religiosa o giuridica e se sia socialmente vincolante;

C) il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nella società del Paese di arrivo. Tale approccio appare un ibrido, che taluni hanno denominato “test culturale”, lasciato di fatto alla iniziativa e alla cultura degli operatori della giustizia, con evidenti difficoltà nel definire entità del danno, natura della norma culturale e grado di inserimento nella cultura di arrivo, che sarebbero facilmente oggetto di interpretazioni soggettive e vaghe.

Con quale test si misurerebbe il danno delle mutilazioni genitali o della violenza sessuale tra coniugi? E cosa si dovrebbe poi dire delle subculture minoritarie, quali le sette religiose, i punk, o altre, sviluppatesi all’interno delle società di massa, anche esse dovrebbero avere rilievo? Anche esse potrebbero rivendicare di essere minoritarie ed oppresse. In ultimo, nel tentativo di eliminare possibili punti di contestazione, in alcune sentenze relative alle mutilazioni genitali è stato citato il fatto che anche in alcuni Paesi di origine delle famiglie che la praticano esse siano oramai vietate e che il divieto delle mutilazioni vada estendendosi nel mondo. Ciò però denota indirettamente una limitata condivisione delle norme e dei principi, che sembra debbano trovare sostegno esterno per poter essere applicati, un elemento di debolezza, non di chiarezza e di forza, a difesa delle bambine e ragazze.

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