Attualità
Il mito del Mediterraneo in Italia
Storia, attualità e prospettive future di un’Italia al centro del Mediterraneo
di Antonio Virgili – vicepresidente Lidu onlus
Quando in Italia si parla del Mediterraneo, o lo si fa semplicemente riferendosi ad esso per affermare che l’Italia è un “Paese mediterraneo”, cioè collocato geograficamente nel Mediterraneo, o si attinge, inavvertitamente, al mito, cioè a narrazioni fantastiche, o solo parzialmente rispondenti al vero, che si tramandano presso un popolo per spiegare degli eventi o per rinforzarne, antropologicamente, il senso di comunità. Ad esempio, si usano le formule arcaiche del “mare nostrum”, o dell’Italia centro del Mediterraneo (lo è, ma solo in senso geografico), o si cita il presunto forte legame tra gli italiani e questo mare, o anche si vorrebbe indicare una – non reale – comunanza di civiltà tra Paesi costieri. Altre volte queste formulazioni mitiche sono usate a fini prevalentemente propagandistici. La realtà, per gran parte della storia italiana moderna e contemporanea, e in larga misura pure per quella antica, ha connotati del tutto diversi, come storia, geografia e geopolitica dimostrano.
L’Italia, come entità sociale e politica, raramente si è identificata con il Mediterraneo, prima perché in parte occupata da popoli stranieri o lungamente frammentata in tanti piccoli Stati in lotta tra loro, repubbliche marinare comprese, poi perché dal mare arrivavano le incursioni turche (ottomane), piratesche e degli schiavisti del vicino oriente. Le torri di avvistamento, note come torri saracene, disposte lungo le coste dell’Italia meridionale lo testimoniano ampiamente. Inoltre, tranne che all’epoca dell’Impero Romano, a seguito di ben tre guerre puniche, e durante la fase migliore della grande Venezia, che però per Mediterraneo intendeva prevalentemente l’area di influenza dell’Adriatico e dell’Egeo, il Mediterraneo non è stato mai sotto l’influenza del potere politico presente nella penisola italiana, o degli Stati italiani preunitari. Nel Sud Italia, il Regno di Napoli, il più esteso e con il maggior sviluppo costiero, nel periodo di vicereame spagnolo non si ebbe modo di sviluppare un ruolo che sarebbe risultato concorrenziale alla Spagna. Solo dal 1734 alla fine del secolo, durante il regno di Carlo e la prima parte di quello di Ferdinando IV, si modificò il modo di pensare ai porti, alla difesa, al commercio marittimo e all’apertura del Regno di Napoli verso l’esterno.
Nel 1739 iniziò il riordino di alcuni porti pugliesi, da Taranto fino a Manfredonia e alcuni anni dopo di quelli siciliani; verso l’esterno il primo passo fu un trattato di alleanza con l’impero ottomano, per cercare di diminuire gli attacchi verso le coste. La svolta per l’ammodernamento della flotta del Regno avvenne con l’arrivo di John Acton, con la sistemazione dell’Arsenale di Napoli, la costruzione dei cantieri navali a Castellammare di Stabia, il potenziamento delle Scuole Nautiche di Napoli e di Piano di Sorrento ma, soprattutto, venne creata una numerosa flotta. Tra il 1818 e il 1860 la marina mercantile del Regno quasi triplicò, il fatto che si sia trattato di naviglio con tonnellaggio medio-piccolo indica però la limitata presenza sulle lunghe distanze. Le convenzioni grazie alle quali si concesse alle navi inglesi, francesi e spagnole la franchigia del 10% dei dazi sulle merci, erano di fatto contropartite politiche verso tali Paesi che evidenziano i limitati spazi di manovra italiani nel Mediterraneo (e non solo) rispetto a tali potenze marittime. La presenza di traffici ben avviati tra Napoli e i Paesi Baltici e per alcune rotte oceaniche, conferma che il Mediterraneo era ancora in parte precluso ai traffici consistenti, perché controllato dalle marinerie inglese e francese che stavano anche velocemente ammodernandosi. Con l’unità d’Italia la politica procedette per discriminazioni piuttosto che per integrazioni e le società di navigazione e la portualità diffusa presenti nell’ex Regno di Napoli ne furono fortemente danneggiate.
Dopo il tentativo napoleonico con Malta e la spedizione in Egitto (Napoleone aveva intuito l’importanza strategica di un canale a Suez), il Mediterraneo è rimasto per circa due secoli sotto il controllo britannico, talora aggressivo, come con la minaccia, nel 1742, di bombardare Napoli, allora capitale borbonica, talaltra di controllo passivo, ma mai estraneo a tutti i principali eventi marittimi successivi, Seconda Guerra mondiale inclusa.
Anche con la realizzazione del canale di Suez il provincialismo e la miopia prevalsero ampiamente nella politica italiana. Ciò sebbene, già nel 1857, il Consiglio della Camera di Commercio genovese avesse chiesto al Governo sabaudo di intraprendere una politica navale più attiva con l’invio di navi militari a “mostrare bandiera” nei porti asiatici, sia per aumentare il prestigio delle rappresentanze diplomatico-consolari sarde ivi presenti, sia per proteggere le navi mercantili e condurre sul campo studi sulle merci più redditizie. In periodo coevo, nel Regno Lombardo-Veneto l’economista Lampertico suggeriva di predisporre le strutture portuali di Venezia alle nuove sfide poste dall’apertura di una via verso l’Oriente, e di attrezzare delle infrastrutture di terra per i trasporti. Neppure c’è stata una percezione corretta della sua importanza dopo l’unità d’Italia, quando il nuovo Regno si è concentrato a tutelare e sviluppare gli scambi tra Nord Italia e Stati confinanti settentrionali.
Per il missionario, esploratore e imprenditore Giuseppe Sapeto (grazie al quale il Regno d’Italia, nel 1882, ebbe un primo possedimento italiano d’oltremare, la baia di Assab), i mercati di Arabia e Corno d’Africa sarebbero stati molto interessanti per l’Italia e sollecitava le autorità statali a potenziare le strade ferrate collegando i principali porti italiani con l’entroterra ed aprendo i valichi alpini, sostenendo che solo una rete ferroviaria capillare avrebbe permesso all’Italia di dominare i commerci euro-mediterranei quale Paese d’arrivo, smistamento e partenza delle merci, avendo come poli i porti del Sud ed i cinque sbocchi alpini a nord. Non solo, l’ex Ministro del Governo Lamarmora, Luigi Torelli, sottolineò, chiaramente e realisticamente, che il semplice taglio dell’istmo di Suez, la posizione geografica dell’Italia e la notevole riduzione del percorso per l’Oriente non avrebbero costituito, da soli, i fattori di garanzia per l’economia nazionale.
Ѐ quindi chiaro che in Italia mancavano, e in gran parte mancano ancora, la consapevolezza e la cultura per una valorizzazione delle caratteristiche geografiche del Paese perché, in sostanza, l’assenza di indirizzi governativi in tal senso ha costituito lungamente il principale limite allo sviluppo d’una strategia di proiezione internazionale, non solo commerciale ma anche politica. L’Impero Austro-ungarico, quello Ottomano, il riemergere del vecchio e mai sopito espansionismo islamico e arabo verso il Mediterraneo, oltre alle altre potenze europee citate, hanno quasi sempre frammentato questo mare in tante aree di influenza e sfruttamento.
Durante il fascismo l’Italia ebbe la velleità di mantenere una colonia nel Nord Africa ed una nel corno d’Africa senza valutare che la maggior parte dei rifornimenti e dei traffici via mare, quindi del cosiddetto potenziale economico delle colonie, sarebbe stata di fatto sotto il controllo inglese. Ciò non per lo scarso valore della Marina italiana ma per l’oggettiva e ben nota presenza della flotta inglese a Malta, Suez, Gibilterra e in tutte le colonie britanniche, oltre alla presenza navale francese. Situazione che la classe politica italiana, tranne pochissime eccezioni, sembrò ignorare del tutto. Dopo la Seconda Guerra mondiale, delegati in gran parte alla flotta USA e NATO il controllo e la sicurezza del Mediterraneo, l’Italia, che aveva perso la guerra, non se ne è occupata molto sino a tempi recenti, quando le ripetute crisi economiche e politiche ne hanno evidenziato l’inevitabile ruolo strategico.
Si dice che l’Europa continentale fosse l’obbligato interlocutore economico nel periodo postunitario, e lo era, ma ciò è andato a detrimento di altre aree del Paese e di strategie di lungo periodo, che altri Paesi hanno invece perseguito. Infatti, è stata ignorata la previsione del peso crescente, economico e demografico, degli Stati del Sud del Mediterraneo, è mancata una rete di infrastrutture lungo la penisola che consentisse di sfruttare le risorse, le possibilità commerciali, di trasformazione e di transito. Ancora nei decenni più recenti la risposta politica è stata la ulteriore concentrazione verso Nord delle risorse e, da ultimo, la cosiddetta autonomia differenziata. Non si è neppure guardato al Mediterraneo per strategie diplomatiche e commerciali, se non in modo molto limitato e sporadico. Unica eccezione Malta, le cui relazioni bilaterali con l’Italia sono state fissate nel 1964, a seguito dell’indipendenza di Malta dal Regno Unito. Ma il legame con l’Italia non è comunque valorizzato appieno sebbene l’Italia sia garante della neutralità di Malta in base ad un accordo bilaterale del 1980. Per la oramai ex Libia, la gestione della potenziale area di scambio privilegiato è apparsa purtroppo mal gestita e sterile nel lungo periodo, anche perché attivamente ostacolata da altri Paesi.
Oggi non c’è un Mediterraneo che rientri in una area di influenza italiana, economica o culturale che sia, per non parlare di quella politica, mentre la Francia ha mantenuto la sua proiezione verso il Nord Africa (con il Trattato del Bardo nel 1881-1882 la Francia aveva reso la Tunisia un suo protettorato, durato sino al 1956, e l’Algeria si è resa indipendente dalla Francia solo nel 1962); la Spagna ha più volte cercato di riprendere il controllo di Gibilterra; il Regno Unito ha continuato con la sua politica post-coloniale, sebbene ora ridimensionata, ma è un Paese che non ha la sua flotta “chiusa” nel Mediterraneo. La Turchia si sta allargando, prima verso Cipro, poi verso l’Egeo, la Libia e il Vicino Oriente, riprendendo le spinte espansionistiche verso Nord dei secoli precedenti. La Russia torna ad agognare una presenza consolidata nel Mediterraneo attraverso le basi in Siria e il ritorno violento in Crimea.
Le connessioni con il Mediterraneo sono oggi certo importanti per molte imprese italiane della marineria, per la cantieristica navale, per le tecnologie, ma è ancora difficile individuare un reale forte orientamento verso il Mediterraneo da parte dell’insieme del Paese. C’era stata una fase durante la quale attraverso il Mediterraneo giungevano in Italia grandi quantità di petrolio che si raffinava e si esportava, c’era stata la fase lungimirante di Mattei, che cercava un ruolo economico più autonomo per il Paese, poi l’ignavia, l’indifferenza, la superficialità disattenta, probabilmente la corruzione.
A livello europeo, quando il Processo di Barcellona fu lanciato, nel 1995, con la Dichiarazione finale della prima Conferenza ministeriale euromediterranea, il mondo stava vivendo una fase geopolitica particolare. La fine del confronto tra il blocco occidentale e quello sovietico aveva portato autori come Fukuyama a considerare l’idea della “Fine della Storia“, come la fine della storia delle lotte ideologiche, con il liberalismo occidentale che emergeva come vincitore finale. Una visione che forse fotografava quel dato momento ma non si rivelava euristica rispetto agli anni successivi. Dopo un temporaneo entusiasmo europeo connesso al Processo di Barcellona, sono riemerse nell’ambito dell’UE, e si hanno ancora, visioni del Mediterraneo difformi e fortemente distorte dagli interessi nazionali. La riunificazione tedesca ha dato forza alla visione tedesca di una necessaria ulteriore espansione verso Est, stavolta economica e non militare come nei tempi precedenti, visione che si alimenta anche del “pan germanismo etnico linguistico” sviluppatosi nel XIX secolo e presente in forme e modalità diversificate nei vari territori dove vivono gruppi di lingua tedesca. Francia, Paesi Bassi, Belgio, Paesi scandinavi e la stessa Germania hanno comunque lo sbocco dell’Atlantico, per cui il Mediterraneo interessa relativamente, tranne quando ne temono la concorrenza.
Dal finire degli anni ’90 l’Italia, almeno nella lettura di alcuni documenti, sembra orientata a proiettarsi verso un cosiddetto “Mediterraneo allargato”, espressione che può avere un senso nell’ambito della ricerca accademica, o di analisi e ipotesi in simulazioni, molto meno nella realtà concreta di un Paese che cerca fuori del Mediterraneo un ruolo che non è riuscito e riesce ad avere nel Mediterraneo. Il Mediterraneo allargato dovrebbe includere il Mar Nero, il Mar Rosso, il Golfo persico, una parte delle acque dell’Africa centro occidentale, in effetti i contorni non sono ben definiti. Essa appare però una visione poco realistica, perché, come accadde durante il fascismo, ignora sia i rischi degli stretti (Gibilterra, Suez, Bosforo, Bab el-Mandeb) che gli interessi in gioco di altri Paesi, che sono tutt’altro che minori. Bisognerebbe partire dalle relazioni economiche e dagli interessi reciproci per immaginare una possibile area di proiezione economica, non viceversa.
Si può comunque affermare che, come da secoli, ogni sub-area geografica del Mediterraneo faccia contemporaneamente parte di due o più campi di forza geopolitica ed economica. Ogni conquista, ogni acquisizione di terra ha portato a controversie e attriti con le vicine strutture geopolitiche, in un confronto serrato fra potenze di terra e potenze di mare, e tra queste ultime. In un quadro del genere, è difficile se non impossibile garantire per il Mediterraneo lo status di regione geopolitica autonoma e di “mare aperto” ai traffici, senza subire le spinte globali provenienti dalle grandi potenze interessate a sfruttarne ed a controllarne la specificità di mare di collegamento tra oceani e continenti. Ancora in questi anni il controllo degli stretti e la transitabilità del suo mare rientrano nei programmi di tutte le maggiori potenze mondiali: USA, Cina, Russia, India. Ciascuna con le sue proposte, la Cina con la “Nuova via della Seta”, l’India con la “Via del cotone”, la Russia cercando punti di appoggio trasversali che garantiscano almeno una forte presenza nel Mediterraneo meridionale e verso Suez, l’Africa e Gibilterra, gli USA che, pur mantenendo una supervisione generale, sembrano orientati a delegare alcuni dei loro compiti agli alleati europei per concentrarsi verso l’oceano Pacifico.
La relativamente recente “riscoperta” del Mediterraneo, quale via di transito ma anche per alcune risorse energetiche e digitali, unita alla persistente valenza strategica del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano in un contesto di globalizzazione di nuovo stampo con l’emergere di nuovi attori, ha spinto molti dei principali protagonisti della scena internazionale ad attivare dispositivi di controllo delle rotte commerciali più trafficate. Ci si può allora chiedere se la teoria circolante di un “Mediterraneo allargato” risponda alle esigenze di garantire la sicurezza nazionale di Roma attraverso una ampia e reale capacità di proiezione entro tale area. Resta da capire se questo concetto strategico, legato alla tradizionale interpretazione regionalista della geopolitica italiana, sia adeguata alle esigenze italiane in questa fase di instabilità del Mediterraneo e delle zone viciniori, ma anche di cambiamento climatico e di crescente pressione demografica del versante Sud.
Il rischio geostrategico dell’estrema permeabilità alle influenze esterne dell’area mediterranea, con l’impossibilità per l’Italia di gestire autonomamente la propria politica estera, è una realtà concreta, acuitasi dopo il 24 febbraio del 2022, con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, con la crescente instabilità della Palestina e con la recrudescenza dello scontro tra potenze conservatrici e potenze revisioniste dell’ordine internazionale liberista a guida statunitense. L’Italia potrebbe provare a lavorare, nel medio e lungo periodo, mediando per un Mediterraneo meno ostile e per un dialogo costruttivo, ricordando che le assenze dell’Italia in tale area attirano sempre rapidamente altri Paesi, fornendo occasioni di conflittualità e concorrenza che danneggiano il Paese. L’accelerato sviluppo delle tecnologie telematiche e aerospaziali, nelle quali l’Italia è ben presente, potrebbe bilanciare le carenze in altri settori, purché il Paese eserciti un ruolo da protagonista, considerato che in aree di forte instabilità è la postura assertiva (da pivot) a garantire la sicurezza nazionale e non l’immobilismo.